VACANZE VENEZIANE, di Lucia Lanza, edito da Antologica Atelier Edizioni

by Maura Mantellino
In questi giorni ho letto VACANZE VENEZIANE di Lucia Lanza. Un originale racconto che mi ha subito incantato. Memorie, ricordi, nostalgie, profumi,  istantanee in bianco e nero della scrittrice durante le vacanze estive trascorse a Venezia. E’ un attento ritratto di personaggi che attraverso vari momenti di vita quotidiana circondano l’autrice. Gli incontri  e l’ambiente vengono descritti con attenzione e ci rivelano un piccolo mondo antico frequentato da persone dell’alta borghesia e del popolo. Si notano diversità culturali e ambientali, vengono descritti i piccoli vizi, gli stati d’animo e momenti delicati dell’infanzia della protagonista.  La tecnica narrativa  utilizzata da Lucia Lanza è notevole e, a volte, si sofferma su piccoli particolari, su un intersecarsi di ricordi, di fugaci apparizioni, di frammenti di conversazioni. Un  raccontare fresco e pieno di colori, ironia, umorismo e paziente gioco delle parti. La sua scrittura è la scrittura dei sussurri, delle sfumature e della quiete che si esprime con una tecnica imperturbabile nella potenza evocativa,  e vibrante di tocchi frementi.
Riporto un pensiero di Mariateresa Bocca: “Uno spazio dell'anima attraversato da sentimenti puri, due occhi grandi in grado di contenere "un cielo di velluto", un corpo che si sentiva avvolto dall'aria salmastra e fresca. È la forza della parola, nuda, svetta da ogni orpelli retorico, della parola essenziale, ripulita da ogni sentimentalismo. È la parola voce del cuore che ha conosciuto persone che hanno sfiorato la sua infanzia, parole di sentimenti che "profumano di limone". Parole che raccontano quello che aveva da dire il vento che passava tra i panni luminosi di sole. Una fanciulla incantata anche di fronte al temporale che rotola nel cielo. Un mondo di bellezza, pagine di emozioni.”
All’interno sono pubblicate alcune fotografie originali scattate dal padre. 
Ed ecco alcuni estratti:
Quella domenica si era portato la canna da pesca mio papà, stava seduto sui gradini che scendevano in laguna, io giocavo in giardino. E mi sedevo con lui, bisognava fare silenzio che i pesci si spaventavano, ma passavano i motoscafi. Poi ha abboccato un pesciolino, quando l'ho visto che sanguinava dal gancio dell'amo che gli
perforava la branchia ho pianto, così mio papà ha rinunciato al suo piccolo trofeo e l'ha ributtato in mare, era ormai morto così ferito ma io non lo sapevo: papà diceva che  guariva con l'acqua salata.
Più avanti:
Olimpia stendeva i panni luminosi al sole del “dopo desinare”, dopo pranzo. Sembrava un gazebo. Quando tutti dormivano e le persiane di legno a battente erano socchiuse e i grilli mi raccontavano tutto di loro: Olimpia stendeva e l'aiutavo. Dalla lavanderia nel piano interrato, salivamo una scala di pietra consumata e scivolosa con la 'brenta'. Sul retro della casa c'era il prato con i fili stesi per stendere e il salice piangente. Mi nascondevo tra i teli pesanti di lino bagnato e profumato di faticoso pulito, ottenuto da Olimpia senza lavatrice. Mi cercava Olimpia tra le quinte delle lenzuola e scherzavamo sottovoce. Spesso apriva bocca per dirmi il suo parere sui signori. Ma non capivo il senso. Ero solo d’accordo sul fatto che, evidentemente, alla Giulietta i bambini non piacevano. Olimpia cercava di farmi capire che era meglio studiare che stirare, e aveva ragione. Mi consigliava un matrimonio fatto bene e scuotendo il capo si contraddiceva, infatti i ricchi si sposavano tra loro.
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Il gatto della Mimma si chiamava come lei, Mimmo, e si distingueva dal gatto della Gemma che non aveva un nome e tutti lo chiamavano 'gatin' anche se era ormai adulto. Lo chiamavo Gemmo, visto che era di Gemma. Con i gatti giocavo: guardandoci, facevamo a chi abbassa prima lo sguardo. Mimmo stava seduto di fronte a me in giardino, io distesa sull'erba dell'aiola, a pancia in giù, di fronte a lui. Brillavano le sue vibrisse al sole che filtrava dal pergolato soprastante e passavamo lunghi minuti così. Occhi vitrei, umidi, rotondi, riflettevano come preziosi: immobili, fissi verso di me. Mi chiedevo che cosa pensava, che opinione aveva di me e un giorno lo chiesi a mia mamma.

- Ma cosa vai a pensare che i gatti pensano, loro non sono umani! - rispose. Continuavo il mio ragionamento: se fossi nata gatto? Come sarebbe stata la vita, che cosa avrei percepito? L'improvviso balzo di Mimmo mi scuoteva dal filo logico- illogico. Era stato un minuscolo ma tenace ragno che si era calato dal pergolato dondolando tra me e il gatto a distrarlo, fulmineo. era già risalito e Mimmo guardava in su. 


Il racconto si conclude con una bellissima immagine:
Come una quasi-donna-gatto ma immobile su quel tetto terrazzato, inconsapevole di poter saltare di tetto in tetto, di sogno in sogno, ancora priva di sogni, innocente , ferma nel limbo custodito della latenza custodita ed inibita, nel mio nido

Una lettura piacevole e consigliatissima.


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