Raoul Bianchini, intervista al Grande Dario Fo, recentemente scomparso

Raoul Bianchini, intervista al Grande Dario Fo, recentemente scomparso
È risaputo che Lei è stato avversato tanto dalla Chiesa quanto dal Partito Comunista, che Le hanno creato molte difficoltà a trovare ambiti teatrali adatti al suo lavoro. Ritiene che questa Sua inusuale capacità di collezionare ostracismi e opposizioni tanto a destra quanto a sinistra - capacità che lei condivide con Roberto Saviano - sia da riferirsi al fatto che messaggi come i suoi destabilizzano equilibri ideologici e politici fondamentalmente ambigui, solo in apparenza contrapposti, che rendono scomode e inquietanti presenze come la sua? 
Dario Fo: Ritengo l'espressione non del tutto corretta. 
Diciamo che sono stato avversato, in certi momenti, non tanto dalla Chiesa quanto da alcuni personaggi della Chiesa, in particolare in certe zone. 
Infatti, come ho verificato, in alcuni spazi e in certe province, ci sono persone - vescovi, ma anche preti - aperti, che si divertono a vedere satira. 
Ce ne sono, viceversa, altri storicamente un po' più ‘sgrinfi', aggrappati solennemente alla ritualità, alle tradizioni... 
Questo accade non solo nella Chiesa ma dappertutto, anche nei partiti, che in alcune zone (per esempio, alcuni anni fa soprattutto, in Veneto o, in Lombardia, a Brescia, Bergamo) si ripete in modo ossessivo. 
Si tratta di zone dove è stato impossibile per noi ottenere spazi per gli spettacoli, in funzione di una sequenza partiti-chiesa dove tutti erano unanimi nell'opporsi al nostro teatro e nel censurarci completamente, cancellando la possibilità di mettere in scena i nostri lavori. 
Probabilmente il fatto di collezionare ostracismi e opposizioni tanto a destra quanto a sinistra è in qualche misura in rapporto al fatto che la satira, quella vera, condotta con sapienza, con conoscenza, fa scattare immediatamente: che cosa? La chiarezza. Scopre l'ipocrisia. 

Certo, ho incontrato anche fedeli aperti e, soprattutto, ben disposti ad accettare critiche o ironia, persone che ho visto godere moltissimo nel ridere, veri cattolici apostolici capaci però di albergare dentro di sé il dubbio - espressione, non lo dimentichiamo, di intelligenza -, che esplodono nella risata in modo straordinario, e diventano sempre più attenti al nostro lavoro, addirittura non ci abbandonano più, perché si sono sentiti da noi aiutati a capire il significato o il doppio valore di certi aspetti, di certe cose. 
 Quando, nel 1997, Le è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura, tale scelta è stata motivata dal fatto che Lei, «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi». 
Lei ritiene che si possa parlare del nostro tempo come di un medio-evo, un'epoca di passaggio tra momenti storici diversi, un tempo di Mutazioni antropologiche
Dario Fo: Certo! 
 Le chiedo questo per due ragioni. 
Innanzi tutto, potrebbe dirci perché è d'accordo sul fatto che si possa parlare del nostro come di un tempo di Mutazioni antropologiche
Dario Fo: Per via della mutazione di due gruppi, quello dei giovani e quello degli operai. 
Entrambi questi soggetti hanno cambiato registro. 
Entrambi si sono resi conto del fatto che il Potere li ha messi al muro. 
Prima il Potere li blandiva, dava loro riconoscimenti, aiuti, agli operai ad esempio scuole legate alla fabbrica, ai loro bambini vacanze al mare, organizzava passeggiate culturali. 
Si è trattato di un lungo periodo di paternalismo, durante il quale il Potere si costituiva per loro come una nuova Madre, una nuova scuola, come un'organizzazione superiore allo Stato, più importante, più viva, perché entrava nelle famiglie. 
Si è trattato di un atteggiamento che si è protratto fino a quando non ne è subentrato, a causa della crisi economica, un altro, di completo sfruttamento, totale, che ha portato allo scoperto il volto autentico del Potere, e allora si è andati giù pesanti, il diktat esplicito è stato: "O fai quello che ti diciamo noi, dal momento che tu - giovane, operaio - non hai più diritti tuoi, quelli classici, della storia del movimento operaio, perché noi te ne imponiamo altri, prendere o lasciare, oppure raccogliamo tutte le nostre carabattole e andiamo a far macchine in Ungheria, in Arabia Saudita, in Messico o non so dove...". 
Sono cambiamenti epocali, vere mutazioni, che ci spiazzano... 
Ad esempio, è sparito il Partito Comunista poiché ha cessato di essere il Partito della classe operaia. 
Con la conseguenza che è stato cancellato un fatto culturale fondamentale, cioè la coscienza di un'alta dignità morale radicata nella sicurezza di avere il Partito e il Sindacato (che è l'espressione del Partito, non lo dovremmo mai dimenticare), alle spalle. 
Questo ha spiazzato le persone, tant'è vero che la Lega ha trovato dei buchi enormi nei quali si è infilata, catturando proseliti e affiliati anche tra gli operai
 Infatti... 
Tornando alla motivazione in base alla quale le è stato assegnato il Premio Nobel per la letteratura, e cioè il fatto che Lei, «seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi», mi interessa chiederLe se Lei condivide l'idea che si possa "restituire" dignità agli oppressi: ne hanno mai avuta? 
A mio parere, Lei non restituisce ma apre l'oppresso alla dimensione della dignità, un po' come Don Milani con Lettera a una Professoressa. Entrambi dando vita a un fatto inaudito, ragione, probabilmente, della inusuale capacità di risultare invisi a destra e a sinistra.... 
Dario Fo: No, no, no, no, sono in completo disaccordo. La dignità... Io ho avuto nonni, zii, parenti stretti, che facevano gli operai, i contadini, ed erano colmi di dignità.... 
 Con la mia domanda intendevo sottolineare il fatto che non si può restituire qualcosa che non ti è stato riconosciuta per quanto tu ne abbia... 
Dario Fo: Mi viene in mente a questo proposito una frase, che non dimenticherò mai, una cosa straordinaria ... 
Eravamo in Sardegna, e avevamo deciso di devolvere l'incasso della serata alla lotta nella quale erano in quel momento impegnati alcuni operai che erano venuti a vedere il nostro spettacolo. 
Alla fine, queste persone ci hanno ringraziato non tanto e non solo per i soldi che avevamo raccolto per loro, ma, come mi disse uno di loro: "perché mi ha fatto ricordare che ho una dignità". 
Allora ce l'ha! 
Che cosa ne possiamo dedurre? Che il Potere riesce a spegnerti, ti fa sentire mortificato. 
Io ho la dignità, sotto, ma occorre che qualcuno mi dia una fiammata, una sollecitazione, perché me ne possa ricordare... 
 Infatti, occorrono fiammate! Risate come fiammate... A questo proposito, Freud, nello scritto Il motto di spirito (1905), ha come Lei affermato che "la risata, il divertimento liberatorio sta proprio nello scoprire che il contrario sta in piedi meglio del luogo comune, anzi è più vero o, almeno, più credibile", mentre uno slogan del '68 che mi era molto caro recitava:"Sarà una risata che vi seppellirà". 
Dario Fo: Ah! Questa battuta faceva parte di un mio spettacolo ma è diventata storica come pronunciata, addirittura, da Mao Tze Tung... E va bene, ho regalato una battuta a Mao Tze Tung! Perché no? Sono talmente prolifico che posso permettermelo! 
 Davvero!!! Era sua!! Non lo sapevo... Proprio a proposito della Sua inesauribile fertilità creativa, distruttiva dei luoghi comuni e delle ideologie cui questi sono funzionali, Le chiedo se oggi, purtroppo, più che a risate che seppelliscono non sottostiamo a risate che consolano... risate buone per più ‘padroni' e per più stagioni, che ci fanno apparire tollerabili orrori, ce li fanno digerire senza che ci rendiamo conto, mentre ridiamo, che stiamo a nostra insaputa supportando forme di pensiero che non condividiamo affatto. Lei pensa che le cose stiano davvero così? 
Dario Fo: Si. E proprio questo tipo di risata bisogna combattere. 
Ci sono due cose che dobbiamo combattere. 
Prima di tutto, l'idea che basta farci una risata che va via tutto, tutto si lava e torna pulito... No. Le cose non stanno così! 
E poi, vanno combattute le cadute nelle trappole dell'illusione. 
La risata è importante perché ti dà la forza di ribellarti, di smascherare, di distruggere e perdere il rispettoso ossequio verso il Potere. Quell'ossequio che ti ingessa, ti blocca. 
La risata che seppellisce ti libera dall'ossessivo bisogno di essere protetto, sottoposto. La risata di cui lei mi chiede, che a nostra insaputa ci fa supportare forme di pensiero che non condividiamo affatto, è figlia della grande abilità della tecnica usata dalla televisione,che ti regala uno sghignazzo come da ricco perché ti vedi finalmente addosso, per esempio, dei sederi splendidi, che nella tua realtà puoi solo sognare, ma mentre sei davanti allo schermo sono lì, quasi li tocchi, fai anche tu parte di quel mondo, sei un guardone finalmente felice, che dal buco della serratura, anzi, anzi, dalla finestra!, vedi tranquillamente cose straordinarie, e queste cose devono essere sempre vive, per cui è bene che i personaggi litighino tra di loro, si odino, si insultino, deve apparire tutto vero, una verità tragica quasi, e poi naturalmente fanno la loro comparsa il sorriso, l'incidente - il seno che esce dalla scollatura e si proietta fuori dallo schermo... 
Soprattutto, ogni tanto, compare una bella mappata di denaro che ti piomba in casa, ed ecco che il mondo delle illusioni è perfetto, c'è la fiera, c'è il carnevale, c'è il contrario della tua realtà, chiunque può diventare ricco, non è vero che la vita è una cosa bloccata, non è vero che come sei nato morirai, non è vero che sei fottuto, dal momento che c'è ogni tanto qualcuno che emerge, che ha fortuna... 
E poi, in trasmissioni come il Grande Fratello, riesci ad avvicinare delle belle ragazze, a fare quattrini, a cambiare mestiere, accade che ti chiamino e puoi arrivare a fare anche il cinema e poi, chissà, magari sposi una donna stupenda che ha anche i soldi....
 Ma infatti io credo che a Lei il Nobel sia stato dato perché ha scelto di restare nell'altra metà del cielo dei sogni.... 
E arrivo alla domanda successiva. 
Da adulti, chissà perché, sembra che imparare a stare al principio di realtà equivalga solo a smettere di sperare l'insperabile (Eraclito), tant'è che al Piccolo Principe di Saint Exupery tutti gli adulti ripetono di vedere, nell'immagine che egli mostra loro, nient'altro che un cappello mentre in realtà si tratta del serpente boa che ha mangiato un elefante... 
Forse tra le ragioni per cui Le è stato assegnato il Nobel sta il desiderio di premiare il suo essere rimasto un Piccolo Principe, che, paradossandoli, sgomina Papi che rappresentano Dio e Papini che rappresentano Dei e dimostra che si può ancora sperare l'insperabile... Lei che ne pensa? Ritiene che già in Non si vive di solo pane, il lavoro che ha scritto con Franco Parenti nel 1956 per la radio, prendesse forma quello che poi diventerà il Suo particolare teatro, che paradossa le stereotipie? È d'accordo sul fatto che spesso è la capacità di sognare a far sì che uomini come Gramsci non abbiano smesso di credere, in tempi di orrore, nell'ottimismo della ragione, che gli permetteva, in carcere, di continuare a coltivare, per sé e per i suoi figli, gli "spazi dell'immaginazione" (Karelli, 1955, 47-48)? 
Non si vive di solo pane, inoltre, evoca un altro slogan di grande impatto emotivo, quello che spingeva a esigere dalla vita non solo pane ma anche rose... 
Dario Fo: Sono d'accordo, rose oltre a pane per me è una costante, e non solo per me ma, addirittura, per la nostra specie, come ha mostrato la ricerca antropologica. 
Pensi che perfino in periodi molto lontani da noi, all'origine della nostra storia di esseri umani, quando vivere era davvero molto complicato, l'uomo aveva bisogno di gioco, come mostrano ad esempio i cacciatori di certe tribù primitive che si mimetizzavano nelle pelli di alcuni animali e ne imitavano i movimenti, l'attitude, allo scopo di entrare nel loro branco, in grande prossimità con essi, e, abbracciandoli, portarne fuori dal branco alcuni esemplari. Esprimendo, in tal modo, un grande senso di ironia e il grande piacere di far qualcosa che è il contrario della logica. 
Alla stessa stregua, sempre studi antropologici hanno mostrato che in molte culture arcaiche si riteneva il bambino nato, divenuto essere umano, quando la comunità riusciva a far scoppiare in lui la risata. 
C'erano, tra i primitivi, cerimonie finalizzate proprio a questa sorta di battesimo: la tribù si raccoglieva intorno al bambino impegnandosi nella produzione di lazzi e giochi, fino a quando finalmente il bambino si metteva a ridere per la prima volta. 
Allora, la Dea del Parto si poteva allontanare dal bambino, se ne poteva andare perché non era più necessario stargli accanto: era ‘nato' un uomo. 
Si tratta di esempi che mostrano che nella cultura, anche nella più arcaica, nella più elementare, si riteneva necessaria fin dai primi giorni di vita, per nascere uomo, la comparsa della risata, dello sghignazzo, del gioco, del paradosso, dell'assurdo, del diverso vivo. Era una necessità fondamentale. 
Già in epoca preistorica all'essere umano non era sufficiente cacciare, predare, avere una femmina, o, viceversa, per la femmina nelle società matriarcali avere un maschio. 
Tutti aspetti oltre modo importanti, ma ridotti a cose inerti, non sufficienti, se privati di immaginazione, di fantasia: del potere della fantasia. 
 Coltivare l'immaginazione equivale alla capacità di trovare la forza di disidentificarsi da rassicuranti saperi consolidati per condurre esplorazioni imprevedibili rispetto all'ovvio (Amati Sas, 1997): le mele cadono sotto lo sguardo dell'uomo da che mondo è mondo, ma "bisogna essere un po' folli per porsi delle domande sulle mele che cadono" (Chasseguet-Smirgel, 2002, 7). 
In caso contrario, può accadere, come a Cristoforo Colombo, di non poter scoprire d'aver scoperto l'America  "Spazi dell'immaginazione" dunque, per resistere al"la bonaccia indifferente, densa/" (Karelli, 1955, 47-48) di una mentalità che non sa incuriosirsi, pensare, come se pensare fosse un rischio (Kristeva). 
Lei, viceversa, trasmette in ogni sua comparsa l'importanza della parola, che salva dalla morte psichica quando tutto pare essersi esaurito dentro di sé (Ritsos, 1969, 107 (2) ), e svolge per noi questa funzione. Ma come ha fatto a continuare a credere nell'invisibile agli occhi, a restare un bambino senza cedere alle lusinghe della compiacenza, dell'adesività? 
Dario Fo: È stato uno psicoanalista, Bruno Bettelheim, a dire che non è importante nascere bambino, la cosa difficile è rimanere un bambino, poiché ciò che bisogna imparare è ritornare in ogni momento al candore dell'infanzia, quello che avevamo da bambini, per non perdere il bambino dentro di noi, non perderlo mai.... Il candore che ci fa essere quello che siamo... 
 Non fare una scissione, come si direbbe in psicoanalisi... 
Dario Fo: La scissione che invece vorrebbe quel modo di dire - "Siamo seri!" -, al quale ho sempre risposto: "Ma neanche per idea!
 Adesso, una domanda un po' scomoda. 
Durante la seconda guerra mondiale Lei si arruolò volontario tra i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate nella Repubblica Sociale Italiana, né l'ha mai negato, ricordando a chi non c'era i suoi diciasette anni. 
A tale proposito, Le chiedo se ritiene che nella costruzione della propria moralità il punto non consista tanto nell'essere stato sempre solo dalla parte giusta quanto, piuttosto, nel potersi ‘ravvedere', cambiare idea. Giovanna Giaconia (1999), un'analista della Società Psicoanalitica Italiana, che ha curato con la psicoanalisi classica adolescenti rinchiusi nel carcere minorile di Milano Cesare Beccaria per aver commesso gravi delitti, mostra come ciò che conta è pensare che "se sono colui che ha ucciso non per questo sarò colui che uccide". Il che equivale, lei dice, a imparare a pensare poiché è possibile tollerare il peso di certi ricordi dal momento che si èp scoperto che si può cambiare
Lei cosa ne pensa? E in che termini ritiene che anche esperienze di cui ci pentiamo o delle quali ci vergogniamo possono paradossalmente stimolare la creatività? 
Dario Fo: Devo specificare che però non ho mai evocato i miei diciassette anni a giustificazione di quella scelta, non ho mai affermato "Avevo diciassette anni, non capivo quello che facevo, non avevo in mente che...". 
Anche se senza dubbio, invece, in me c'erano dei buchi di consapevolezza, di conoscenza, di sapere, c'erano la guerra, bombardamenti ogni giorno, a scuola andavamo quando si poteva, ma la ragione di quella mia scelta non è dovuta a questi buchi o a questi eventi. 
Il fatto era che il governo di allora, veramente un governo fantoccio, a un certo punto si accorse che molto spesso i giovani se ne andavano sulle montagne, alcuni magari per sconfinare in Svizzera, perché in Italia non trovavano più spazi adatti a sé, anche così è nata la Resistenza, che non è mica comparsa organizzata, per così dire, geometricamente. 
Quelli erano giorni di un papocchio tremendo, e il governo fantoccio s'accorse, appunto, che i giovani sparivano. 
Perché? 
Perché, a scaglioni di età - tutti quelli del primo semestre, ad esempio, del 1926, che quindi avevano come me, allora, diciassette anni - i giovani dovevano andare in Germania a rimpiazzare i tedeschi che avevano dovuto abbandonare le fabbriche in cui lavoravano per essere arruolati nell'esercito. 
Ma si poteva evitare di andare in Germania (dalla quale rischiavi di non tornare più perché nel '44 le fabbriche erano continuamente bombardate, ne saltavano per aria ogni settimana a decine), arruolandoti in qualche settore dell'esercito. 
Ma dov'era il trucco? Perché un trucco, naturalmente, c'era. 
La contraerea aveva poche postazioni di artiglieria, se ne facevi parte era possibile restare nella tua zona, fare insomma l'imboscato, un imboscato della contraerea che poteva andare a casa tutte le sere. 
In questa macchina sono cascati quasi tutti i giovani di allora. 
Però - questo era il trucco del governo fantoccio - una volta che eri inquadrato nell'artiglieria, venivi passato all'artiglieria dei tedeschi, andavi a fare il servente di pezzo, come si diceva, dell'artiglieria tedesca, della loro contraerea, e lì il numero dei morti era impressionante, una cosa indescrivibile, di quei ragazzi ne moriva il settanta, ottanta per cento ogni anno, per salvarsi si doveva mirare molto in alto, dovevi andare al massimo ... 
Ecco perché si scappava. 
Anch'io, allora, prima sono scappato, ma non trovavo un luogo in cui stare, e alcuni amici, già imboscati nei paracadutisti, mi hanno suggerito di arruolarmi volontario tra i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate. 
Qui, avevi il vantaggio di farti una scuola di quaranta giorni: per quaranta giorni (ed eravamo alla fine della guerra) tu potevi esistere coperto, protetto e indisturbato. 
Certo, rischiavi di spaccarti una gamba, o che non ti si aprisse il paracadute, però con i rischi corsi altrove non c'era confronto... 
Da lì poi sono scappato di nuovo, quando ho fatto il mio piccolo primo lancio, un lancio da ridere rispetto a quelli che si facevano allora, me ne sono tornato dalle mie parti e mi sono andato a intrippare in montagna, dove non ho trovato nessuno e mi sono fatto un mese da solo dentro una stamberga, dove ogni tanto mi portavano da mangiare... 
Questa è la mia storia, che ho descritto in un libro (Fo, 2002), Il paese dei mezarat (i mezzitopo, cioè, in lombardo, i pipistrelli), non la sto raccontando per la prima volta a lei. Fu un modo - quello che trovai io - per salvare la pelle... 
 Grazie. 
Un'ultimissima domanda: me la consente? 
Dario Fo: Si 
 Di carattere più personale.... Ha incrociato nella Sua vita e nel Suo lavoro la psicoanalisi? Se si, ha voglia di raccontare e di dire cosa ne pensa? 
Dario Fo: Si, me ne sono interessato sia perché fa parte della letteratura sia perché è uno strumento prezioso per capire i significati di molte cose; soprattutto, per capire i valori. 
Per questo, ho letto, guardato, ma, soprattutto, mi sono fatto coinvolgere da alcuni medici nel lavoro di apertura dei manicomi, mi sono trovato a fare degli spettacoli in mezzo ai degenti e ai professori, dove non capivo mai chi erano i degenti e chi i professori... 
Per concludere, direi che quell'esperienza, la vicinanza ai pazienti, è stata per me una via per avvicinarmi alla psicoanalisi, per studiarla. 
a cura di Raoul Bianchini 








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