1967. Vacanze italiane 2, Riccardo Lera

1967. Vacanze italiane 2
Venne giorno. Anche se ancora inscatolati lungo la A1 dentro il nostro maggiolino, il sud si appalesava in tutta la sua sfavillante bellezza. Siepi di oleandri coniugavano infinite tonalità di rosa fra le due corsie autostradali e pini marittimi si aprivano verdissimi verso un cielo che già sapeva di mare e di sole. 
Già il sole. 
Quello col passare delle ore saliva sempre di più verso l'alto, annegando profondo nell’azzurra volta italiana. Era giallo, luminosissimo ma, porca vacca, caldo, molto caldo e poi, verso mezzogiorno, schifosamente caldo e rovente. Io sudando ormai fradicio sotto le ascelle, le natiche pressoché incollate alla finta pelle del sedile, di tanto in tanto occhieggiavo preoccupato la bombola del gas serrata fra le mie ginocchia. Tastavo frequentemente la chiusura di sicurezza per tranquillizzarmi, ma il cercare un po' di refrigerio aprendo anche di un solo dito il finestrino era assolutamente proibito. Mamma, a titolo di monito, già si era annodata un foulard in testa e ogni mio tentativo di accesso alla manovella dell'alzacristalli era bloccata da uno stentoreo quanto lamentoso muggito:
"Che aria!"
Alla fine trovai un compromesso adolescenziale, forse il primo ed unico raggiunto in vita mia, con l'apertura parziale del deflettore anteriore, fortunatamente realizzato da Ferdinand Porche per la sua indistruttibile creatura d'acciaio. Per la verità quella fessura apportatrice di ossigeno fresco non era sufficiente e, mentre alle due di pomeriggio stavo ormai veleggiando verso una progressiva asfissia, le mie sorelle cuocevano sul sedile posteriore a fuoco lento, laooconticamente abbracciate al frigorifero da campo in un estremo tentativo di sopravvivenza. Ho il vago sospetto che le frequenti incongruenze mentali presenti nella loro vita di donne adulte siano da ricercarsi in quella sorta di bagnomaria cerebrale alle quali furono purtroppo esposte. 
Finalmente a tarda sera, attraversato un piccolo rio, il Mingardo, limpido e fresco testimone di una cultura longobarda giunta fino a quelle basse latitudini, giungemmo a destinazione. La Signora Chan, così era stata battezzata nel gergo familiare il nostro robustissimo maggiolino Volkswagen, era riuscita a non far scoppiare bielle e pistoni, portandoci sani e salvi fino al tanto desiderato camping Marinella di Palinuro che, Sandra Pasqué, una collega giornalista di mamma ci aveva raccomandato. 
Gli ultimi chilometri di quell’anabasi familiare erano tuttavia risultati devastanti.

L’autostrada del Sole ci aveva proditoriamente abbandonato all’altezza di Battipaglia e per proseguire, la signora Chan si era dovuta sgommare la sedicente "strada" che da Agropoli, attraverso il vallo della Lucania conduceva ad Ascea, Pisciotta e Rutino. Ore di calvario automobilistico, che snodandosi lungo itinerari da brivido, ci avevano sovente costretti a miracolosi sorpassi di mandrie di asinelli, ad un'approfondita conoscenza geologica di tutte le pietre che costellavano mulattiere generosamente autopromossesi al grado di statali e a pazze corse di urlanti sciuscià scalzi al nostro passaggio. 
Ma insomma, eravamo giunti felicemente a destinazione.
Tuttavia debbo annotare come, nella secolare ed epica lotta in cui si affrontano teoria e prassi, mio padre sia emblematicamente uno strenuo epigono soltanto della prima. In grado di estrarre a mano una radice cubica, elencare fino alla ventesima cifra decimale la sequenza numerica del p greco e altre arzigogolate prelibatezze che, partendo dalla matematica pura spaziano dalla numerologia alla storia delle religioni e dall’astrofisica quantistica alla filosofia epistemologica, papà rappresenta, fra tutti i componenti del genere umano vissuti sulla terra fin dall’epoca del Big Bang, quanto di più pericoloso si possa presentare nella vita di un umile e semplice cacciavite o di una tenera ed indifesa tenaglia.
Ora il maggiolino boccheggiando, in un ultimo sforzo aveva vomitato dal cofano l’indistruttibile tenda Gifacò ed espulsa tutta la famiglia Lera dalle due portiere laterali che, finalmente aperte, le garantivano un po’ di refrigerio all’ombra di un olivo secolare
La paletteria della tenda era pertanto lì, sulla nuda terra, dentro un sacco di iuta grezza, adagiata a pochi metri da un mare blu cobalto. Fra le maglie del tessuto, l’ossuta ferraglia osservava mio padre con malcelato nervosismo, mentre il vecchio iniziava a dilungarsi in una sterminata sequela di possibili approcci al problema del suo montaggio ed io, che come manualità son peggio di lui, iniziavo a preoccuparmi per la notte ormai incombente. Papà non lo nominò, ma intuii che, in una sorta di automatismo, stava frugandosi le tasche alla ricerca del suo regolo calcolatore che, dal punto di vista pratico, sta al montaggio di una tenda come un’improvvida e triste aranciata al celestiale brasato di Carrù.
Fortuna volle che dietro le nostre spalle si fosse materializzato un angelo dalle umane fattezze. Alto, fiero, due occhi straordinariamente intelligenti, il Dottor Gerolamo Chiappino era uscito da un maggiolino Volkswagen color sabbia parcheggiato pochi metri più in là, anche quello, guarda caso, targato Alessandria. Trentaquattrenne, medico della Clinica del Lavoro di Milano, originario di Capriata d’Orba, il nostro angelo era in grado di districarsi con eleganza dai grovigli che la vita di un campeggio propone con continuità. Ci montò la tenda, insegnò a mia madre a mantenere fresche le ghirbe dell'acqua, a porre il burro sottoterra per conservarlo al meglio e, insomma, ci ricoprì di tutte quelle attenzioni necessarie al raggiungimento di un dignitoso standard di vita all'aria aperta. Seppi dopo anni che il suo curriculum professionale si arricchì al punto di ricoprire il prestigioso incarico di Direttore del Clinica del Lavoro di Milano e in quei giorni, lo confesso, la sua gioiosa e forte compagnia mi affascinò a tal punto da farmi desiderare una laurea in medicina. 
L'ho ritrovato solo qualche anno fa, grazie a Facebook, ormai ottantenne, in una casetta fra le alpi bergamasche, piazzata all'ombra di un fitto bosco. Non gliene fregava più nulla della Medicina, dell'Università e della città di Milano. Aveva con sé la moglie, gli uccellini, l'orto e migliaia di piante da curare. L'impianto elettrico e l'acquedotto se li era costruiti da solo e sorridendo mi disse che lui, in bagno, aveva il privilegio di farsi la doccia con l'acqua minerale delle fonti San Pellegrino.
E' mancato all'improvviso lo scorso anno, appisolato su di una sedia davanti a casa, sotto il cielo della Val Brembana, portandosi via con sé un pezzo di quelle mie splendide e indimenticabili vacanze a Palinuro.









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