Canestro! Racconto epico sportivo, by Riccardo Lera

Canestro! Racconto epico sportivo.

Dedicato al Basket Club Serravalle e a Bruno Tato Massavelli, mio amico carissimo.

Il mio soprannome cestistico era “Flabo” e a buon diritto sono ora membro della Hall of Fame dei peggiori giocatori di basket mai prodotti sulla faccia della terra. Anche se il canestro, invece di mezzo metro fosse stato largo mezzo chilometro c’erano grosse probabilità che lo sbagliassi. 
Forse passavo benino la palla, ma era duro mettermi alla prova in questo, perché come partivo in palleggio me la picchiavo sui piedi oppure commettevo infrazione di passi.
Quando iniziai a giocare erano gli anni della crisi petrolifera e la domenica si andava a piedi, con le fabbriche che morivano dopo il grande boom del decennio precedente. 
Nella tarda estate del 1972 Mario Titolo raccolse alcuni vecchi della ormai sepolta Arquatese, li fuse con le giovani speranze di Serravalle e da quell’unione nacque il Basket Club Serravalle Scrivia. Colore della maglia: rossoblù.
Venne ingaggiato come allenatore il Gian Patri, faccia da indio perennemente corrucciata ed una voce così profonda da sembrare proveniente dall’al di là. La squadra fu iscritta al campionato di prima divisione. L’aggettivo “prima” non inganni. 
Quello è ancor oggi l’ultimo dei campionati possibili, il peggiore come qualità di gioco che sia tuttavia regolarmente riconosciuto dalla FIP, la Federazione Italiana Pallacanestro. Per essere ancor più espliciti, in quel campionato la retrocessione non esiste, perché “dopo” di quello vi è il nulla.
Patri ci si mise di buzzo buono e, in attesa dell’inizio del campionato, provò a dare un gioco a quella sorta di armata brancaleone. Tuttavia passavano le settimane e il calendario delle gare non arrivava. I migliori iniziavano a sbuffare: che senso aveva allenarsi così tanto se non si sapeva quando si sarebbe giocato? E così la frequenza agli allenamenti cominciò a diradarsi. 

L’unico che non mancava mai ero io, il Flabo, perchè anche se tecnicamente inguardabile quel gioco mi piaceva terribilmente. Sbagliavo da sotto, sbagliavo in terzo tempo, sbagliavo dalla media, dall’angolo e dalla lunetta. Per assurdo i rarissimi canestri li infilavo tirando da poco dopo la metà campo, come se il Dio del Basket, per un attimo si fosse distratto. 
Passò tutto l’inverno: Cassano, Ivo, Tito ed il Quighe ormai non si allenavano più, finché una sera Mario entrò in palestra, infreddolito, con un foglio in mano. Era il calendario. Cinque squadre: Valenza, Casteggio, Pavia, Castelnuovo Scrivia e noi. Un campionato corto, cortissimo, quasi ridicolo. Tuttavia i migliori rispuntarono dal nulla così come erano scomparsi.
Il buon Gian, valutato il comportamento di molti, in quelle otto partite ruotò tutti i gocatori, facendo giungere il Basket Club al terzo posto. Tutti tranne me. Insomma per il Flabo proprio non era possibile trovargli un buco in squadra. Nemmeno per un minuto.
Venne l’estate. Alcune grosse società avevano messo gli occhi su tre dei nostri giovani migliori: fu così che per due canestri e dieci palloni, lo Stiv, Pino e Gabriele si videro spalancare, in Alessandria, le porte della serie C. Due canestri e dieci palloni. Se ci penso, ancora adesso mi vengono i brividi. Eravamo proprio dei babbei. Su quella vendita disgraziata la squadra si sfasciò. Il Gian se ne andò disgustato, alcuni fra i vecchi decisero di appendere definitivamente le scarpe al chiodo e quasi tutti i dirigenti decisero che quell’esperienza a Serravalle non poteva continuare. 
Rimase solo Mario. 
Mario forse non aveva mai giocato in vita sua a basket e probabilmente conosceva appena le regole, ma se ne fregò di tutto e di tutti: raccolse gli scarti, li coagulò intorno a Maurizio Antinori, l’unico dei migliori rimasti e, con un coraggio che sfiorava l’incoscienza, ripresentò la squadra per il suo secondo campionato di prima divisione. 
E fu campionato vero. Dodici squadre, alcune nuovissime nel panorama cestistico alessandrino: la Luese, il Castelspina ed il rocciosissimo Castellazzo, dove durante gli incontri contro la nostra squadra si contavano più i feriti che i canestri. 
Mario avrebbe anche avuto il coraggio di farmi giocare, ma in quell’anno fui operato al piede, cavandomela con una gamba ingessata per tre mesi, la successiva riabilitazione ed il camminare per mesi appoggiato sulle stampelle. Andavo ugualmente in palestra, osservando gli amici allenarsi; poi quando gli altri si cacciavano sotto la doccia, saltabeccando su di una gamba sola piazzavo un paio di tiri, a volte fracassando qualche vetrata, inseguito dalle urla del custode.
Partito il torneo, arrivarono le prime sconfitte e qualche rara vittoria. In una il Binghi segnò un autocanestro decisivo, invertendo mentalmente i campi. Ci riuscì così bene che nonostante le feroci proteste degli avversari, gli arbitri convalidarono a nostro favore.
Aiutavo il Mario in panca, quando si giocava in casa. Qualche risultato si iniziava per davvero ad intravedere, ma verso metà torneo, in casa ricevemmo la Juniores dell’Alessandria con Antinori infortunato. Fu il giorno dell’Apocalisse. Non ricordo con precisione il passivo, forse cinquanta, addirittura sessanta punti. Passare la metacampo contro il loro pressing era già un impresa. Piergiorgio battendo due tiri liberi, il primo lo stampò contro il tabellone, al secondo impresse una parabola così alta che, ricadendo, la palla gli rotolò sui piedi per poi finire in mezzo al pubblico. Una Caporetto insomma. Tuttavia, rientrato l'Antinori la squadra si riassestò. 
Si vinse a Castellazzo, nonostante una frattura, il ricovero di Giuliano per escoriazioni multiple ed una rissa di proporzioni bibliche fra i pochi nostri supporter ed il loro pubblico. Si vinse anche ad Acqui, giocando sotto il mercato ortofrutticolo, con Mario che alla fine della partita caricò sulla sua Ford Escord l’arbitro per sottrarlo alla furia dei tifosi locali inferociti. 
Insomma la squadra iniziava a funzionare. E Mario era contento. Solo una cosa non riusciva a digerire: quella maledetta sconfitta con l’Alessandria.
“Gliela faccio vedere io a Massavelli!” grugniva sotto i baffi di tanto in tanto.
Bruno Tato Massavelli non solo era l’allenatore della Juniores che così sonoramente ci aveva umiliato sul nostro stesso campo, ma era uno dei dirigenti che, sottraendoci i tre gioielli del nostro vivaio, aveva fatto traballare quella società che, a Serravalle, dopo decenni d’incontrastato dominio, rappresentava l’unica alternativa al calcio.
E la gara di ritorno giunse.
Come per tutte le cose che aspetti con ansia, il diavolo ci mette sempre la coda. Tra infortuni ed influenze Mario non riusciva a farne su dieci. E per di più Antinori aveva la febbre. Alla fine dell’ultimo allenamento Mario contò otto giocatori. Andò a casa dell'Antinori, lo pregò, lo scongiurò e tanto insistette che alla fine quello, imbottito d’antibiotici s’arrese e gli disse di sì. Ed era così arrivato a nove. Ma non poteva tollerare di entrare in campo con un giocatore in meno. Una squadra senza dieci giocatori gli sembrava un qualcosa di raccogliticcio, senza orgoglio, già destinato alla sconfitta, mentre lui quella partita doveva assolutamente vincerla. Aveva studiato la tattica per settimane. Individuato giustamente il loro punto di forza nel play maker, per la difesa pensò ad una zona mista, con un nostro uomo da turnare in marcatura asfissiante proprio contro il loro palleggiatore.
La tattica sembrava buona. Antinori c’era. Ma andar là in nove…
Mario girava per il paese sulla sua Ford Escort. Alla fine un’idea lo folgorò.
“Flabo!”, pensò a voce alta.
Mi vide lungo il viale che arrancavo appoggiandomi sulle stampelle.
Mi si accostò piano e tirato giù il finestrino, gracchiò:
“Dì, vuoi mica giocare oggi?”
Non ci pensai su nemmeno per un istante.
“Sì”.
“Nella mia squadra servono tutti”, sentenziò Mario “Si parte alle quattro”.
“Dall’EUR?”
“Si, da dove vuoi che si parta?” rispose, dimenticando che io non ero mai stato da nessuna parte.
E così alle quattro, all’EUR, il bar del paese, intorno al Mario c’erano dieci persone e ventidue gambe. Io non so se quel giorno Mario avesse che so, sniffato coca o semplicemente bevuto un po’. Spiegò la sua tattica che tirò fuori lì, sulla strada, così come un prestidigitatore fa con un coniglio dal suo cappello.
E poi giurò.
“Se vinciamo, questa sera champagne per tutti”.
Nessuno nella squadra aveva mai bevuto quel vino così famoso e costoso.
“Tre bottiglie, ve lo prometto!” Sarebbero state più di centomila lire e chi ha memoria buona, sa cosa volesse dire una simile cifra nel 1973.
Giunti ad Alessandria, la squadra si cambiò. Per uno strano gioco del destino a me toccò il dieci, il numero che avevo sempre sognato d’indossare. Poi si scese in campo. Rispetto alla nostra palestrina francobollo, con un campo omologato ai limiti inferiori della norma, il palazzetto di Alessandria sembrava una piazza d’armi. 
Ciuci era fra il pubblico. Sventolava un’immensa bandiera rossoblù, alternandosi fra un tamburo e due trombe da stadio. 
Massavelli s’avvicinò a Mario. Era almeno trentacinque centimetri più alto di lui.
“Non essere ridicolo”, gli disse, indicandomi.
“Staremo a vedere”, rispose Mario sibilando fra i denti.
La partita iniziò.
Con le trombe Ciuci, sugli spalti, faceva un rumore da inferno.
Mario aveva piazzato Piergiorgio e Paolo Boldrini sotto, Maurizio Antinori in regia, il Binghi esterno. Il quinto lo cambiava ogni due minuti. Sabina, Giovanni Ciarlo e Paolo Icardi erano incollati al loro palleggiatore. Gli ordini di marcatura avrebbero fatto impallidire Bearzot quando ordinò a Gentile di piazzarsi su Zico. La mossa sembrava dare i suoi frutti. Il loro play, sempre più pesto ad ogni azione, protestava con l’arbitro, ma questi, più che riempire di falli i nostri difensori non poteva fare. Maurizio nonostante la febbre teneva bene il campo, mentre Boldrini e Piergiorgio facevano sotto i tabelloni un onesto lavoro. Chi stava facendo la differenza era incredibilmente il Binghi. Tirava da tutte le parti, da destra e da sinistra ed ogni volta col suo jump per l’Alessandria eran dolori. 
Binghi col passare dei minuti continuava a sforacchiare la rete degli avversari, ma iniziava a perdere fiato. Per fortuna sua e nostra arrivò la fine del primo tempo con il Basket Club Serravalle incredibilmente avanti di otto punti.
Negli spogliatoi risuonava solo la voce del Mario.
“Nella vita ci sono due categorie di persone: chi ce li ha e chi no!”
Aveva gli occhi torbidi come Sukov durante la battaglia di Stalingrado.
“Guai a voi a chi se la fa sotto; anche se sono piccolo, giuro che lo spezzo in due”.
Mario aveva davvero una faccia da far paura. Tutti sapevamo che stavamo facendo qualcosa al limite delle nostre forze, se non della pazzia, ma di fronte a quella faccia nessuno ebbe il coraggio di lamentarsi.
Gli arbitri fischiarono il secondo tempo.
La partita stava in bilico, con Mario che centellinava i minuti di sospensione per far riprendere il fiato al Binghi che ormai veleggiava oltre i trenta punti. Quando Maurizio Antinori vide il suo compagno ai limiti dell’anossia, cercò un’entrata, ma al primo contatto con l’avversario si accasciò a terra urlando dal dolore. 
Mario saltò dalla panca come una molla. Chiesto il permesso all’arbitro si catapultò in campo con una bottiglia d’acqua. Maurizio gliela strappò dalle mani e iniziò a bere a canna.
“Ho un crampo!” urlò.
Mario cercava di capire dove il nostro play avesse il crampo, mentre quello stava attaccato alla bottiglia come un’idrovora.
“Bevi piano, bestia!” 
Maurizio schiacciò l’occhio a Mario. Si alzò, picchiò un piede più volte a terra. Diede la bottiglia a Mario e gli disse piano in un orecchio:
“Danne un po’ al Binghi che è scoppiato”.
Mario guardò la bottiglia. Era completamente piena. Passò vicino al Binghi e gliela porse:
“Solo un sorso”, ordinò, secondo i dettami del tempo mentre gli arbitri intimavano al nostro coach di lasciare il campo.
La partita era ripresa. Ma non c’era solo il Binghi ad essere scoppiato. Anche il loro play non ne poteva più. All’ennesimo fallo subìto, l’alessandrino allungò un pugno a Sabina e l’arbitro lo cacciò dal campo.
Per l’Alessandria divenne durissima. Il Basket Club prese il largo con il nostro bandierone sempre più sventolante. Mancava un minuto. Venti sopra. Era vinta. Sembrava impossibile ma era vinta.
Mario si rivolse all’arbitro.
“Cambio, per favore; Binghi vieni in panca”, poi si girò verso di me che stavo esultando come un tifoso.
“Riccardo vai dentro”.
Mi sentìi come avvolto da una scarica elettrica. Posai le stampelle lungo il bordo della panchina.
“Chi io?” risposi incredulo.
“Ci sono altri Riccardo in panca?”, gracchiò acido Mario.
“No, no, vado”.
Iniziai a saltare su di una gamba. La palla era nostra. Maurizio prese a zigzagare fra gli avversari. Tutti erano marcati. Tutti tranne il sottoscritto, posto sulla destra, due dita dopo la metacampo. Mancavano dieci secondi. La palla mi arrivò; me la guardai fra le mani e poi, come nei film americani mi dissi:
“O adesso o mai più!”
“No, Riccardo”, sbraitò Mario
“No tienla Flabo”, urlò Maurizio.
“No, quello no”, gridò Massavelli, l’unico ad aver capito.
La palla era partita altissima, quasi accarezzando il soffitto del palazzetto, poi, veloce come un missile, ridiscese e centrò il canestro senza neanche muovere la retina.
“Dio mio, Flabo l’ha messa dentro da metacampo” sbavò felice Mario in panca.
Ma io la palla non l’avevo nemmeno più guardata. Ancor prima che entrasse dentro il ferro avevo alzato le mani, girandomi verso il pubblico. Sul mio viso avevo un enorme sorriso da idiota, uno di quelli che solo gli idioti sanno di avere.




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