LMCA: Gamberina, libri e mostre

by Piercarlo Fabbio RADIO BBSI 
Alessandria: Se vi chiedessi di pensare ad un museo, qual è la prima cosa che vi salterebbe in mente? Una noia mortale, un luogo di trapassati remoti, una rassegna di cose che un tempo almeno servivano a qualcosa e che ora non stimolano neppure più la curiosità di un momento? Oppure siete tra coloro che ritengono che attraverso le cose, qualunque esse siano, messe in bella mostra, potrete recuperare il senso delle vostre radici, della cultura dei vostri padri, del modo di comportarsi nel quotidiano, sia esso ordinario, sia straordinario, che porta a comprendere tanti perché a cui non siete mai riusciti a dare risposta?
Che apparteniate all’una o all’altra schiera potrete tranquillamente rimanere qui con LMCA (La Mia Cara Alessandria), perché vi parlerò, anche se non è la prima volta che lo faccio, di un museo molto particolare: quello comunemente chiamato della Gamberina, ma che in realtà ha un vero e proprio nome e cognome: Museo Etnografico “C’era una volta”.
Ma non vi parlerò delle cose che vi sono raccolte, che già conosciamo nel nostro intimo visto che appartengono alla cultura contadina che è un po’ alla nostra origine, ma dei libri che vi sono racchiusi. Un patrimonio secondo me inestimabile e così corposo che, oggi come oggi, la maestra Elena Ulandi, da sempre motore insostituibile del museo, non riesce neppure a catalogare.

Le mancano aiuti, forze che si rendano disponibili a darsi da fare per non far dimenticare Alessandria e la sua vecchia gente. Forse anche risorse economiche, ma di quelle la Maestra Elena non si è mai lamentata, così com’è abituata a vivere raccontando più la povertà che la ricchezza. Anzi, come in “Natale di Paglia”, una rappresentazione sacra legata a doppio filo con il Museo, la ricchezza serve solo per contrasto a enfatizzare la povertà. E dire che il Museo avrebbe sicuramente bisogno di risorse economiche e di attenzioni culturali da parte di ognuno di noi, ma soprattutto delle istituzioni.
Come vi dicevo, dunque, ho chiesto il permesso per sfogliare qualche vecchio libro e presto ve ne racconterò qualche pagina, non prima però di aver ricordato che è spirato il tempo di esposizione di una mostra fotografica dal titolo intrigante “Ospedaletto 45”, che mette insieme una serie di fotografie della guerra 1915-1918 (siamo ancora nel centenario) a cura di Guido Ratti.
Una volta in più si parla di persone, in particolare di Luigi Dardano (1879- 1955), medico chirurgo, chiamato in guerra dal 1916 al 1918, nell’Ospedaletto 45 vicino al fronte. Aiuto chirurgo dell’Ospedale dei Santi Antonio e Biagio, a poco meno di 40 anni, con famiglia alle spalle, Dardano venne spedito – dopo un breve corso per allievi ufficiali – da Alessandria nelle immediate retrovie del fronte come tenente medico di un piccolo ospedale da 50 letti: l’Ospedaletto 45 in cui prestò servizio fino al congedo alla fine del conflitto sotto il comando di un capitano-primario. Eravamo a fine 1915 e quindi Dardano si fece proprio tutta la guerra, come si diceva una volta.
Tornato ad Alessandria riprese subito servizio all’Ospedale civile in Chirurgia e contemporaneamente tornò ai suoi pazienti della Borsalino (nelle cui case di corso 100 Cannoni abitava e teneva l’ambulatorio) e della Ferrovia: molti ricordano con stima ed affetto Luigi Dardano.
L’archivio fotografico che ha lasciato e che ora è di proprietà dei nipoti, si compone di circa 450 stampe positive perlopiù di piccolo formato e le foto riguardano principalmente quattro temi della vita di Dardano al fronte: il tavolo operatorio e i pazienti; i momenti di riposo con colleghi e commilitoni; il paesaggio della guerra e le peregrinazioni dell’Ospedaletto 45 in funzione degli spostamenti del fronte; e infine qualche scorcio di prima linea tra trincee, cannoni e camminamenti.
Una mostra che, in pieno stile “Gamberina” racconta la quotidianità. E stavolta i ricordi sono fotografati su carta e non solo impressi nella memoria di ognuno o devono essere estrapolati dalla visione delle cose d’antan.
Come prima vi dicevo, ho chiesto alla Maestra Ulandi di poter sfogliare qualche libro che, al solito, era indaffarata a catalogare. Ne ho proprio presi due a caso. Uno piccolo in formato 10×15, e uno grande. Mi pareva un 22×33 centimetri, tanto per tentare di andarci vicino.
Cosa vi dovevo dimostrare? Che comunque al Museo hai fra le mani un patrimonio. E così è effettivamente successo.
Il libro più piccolo ha il senso di quelle cose utili al tempo, ma che mai potranno diventare letteratura. Eppure storia lo sono, eccome! Ecco il titolo: “SAI Società degli Agricoltori Italiani”, Roma, via XX settembre 8, notizie, statuto, vantaggi dei soci. Anno 1913, il che fa capire come i libri, anche quelli più insignificanti a prima vista, vivano ben di più degli uomini che li hanno scritti.
Ma che strana Società è questa? Leggo dallo Statuto, art. 1:
“La Società degli Agricoltori Italiani, con sede in Roma, ha per iscopo di promuovere l’incremento ed il perfezionamento dell’agricoltura e delle arti ed industrie che vi si attengono; il miglioramento materiale e morale delle classi agricole in armonia con gli interessi generali; l’educazione agraria nazionale. La società è estranea a qualsiasi partito politico”.
Quindi un’associazione, la chiameremmo oggi, da non confondersi con consorzi o addirittura società di mutuo soccorso, tendente più ad occuparsi di aspetti scientifici e culturali, che non direttamente operativi. Non a caso nelle pagine interne ci si loda e nello stesso tempo ci si lamenta: “3200 sono già i soci” e poco più di 1500 erano nel 1895 quando si era partiti con la SAI, ma “dovrebbe contarne almeno 10mila.” E poi uno slogan patriottico: “Gli agricoltori italiani debbono unirsi pel loro bene, che è il bene d’Italia”.
A guardare bene il libretto ci sono informazioni sulla governante della società, ma anche indicazioni sulle filiali, che poi vengono pomposamente soprannominate “corpo consolare”. La provincia di Alessandria non può mancare e la città capoluogo ha anche un capo console, il cav. Prof. Enrico Voglino. Vi è anche la presenza della SAI in altri paesi o città come Felizzano, Valenza, Bosco Marengo, Acqui ed Asti che in quel tempo fa ancora parte della provincia di Alessandria.
L’altro libro, quello di più ampie dimensioni, invece era un romanzo. Per l’esattezza un romanzo storico. Titolo: “Testa di ferro”, sottotitolo “Emanuele Filiberto” edizioni Nerbini in Firenze. Anno 1931. Autore: Cesare Roberto, illustrazioni di Tancredi Scarpelli.
Perché un titolo del genere? Perché Emanuele Filiberto, nato a Chambery, è considerato uno dei fondatori dello Stato Sabaudo, tanto che i torinesi gli hanno dedicato un monumento equestre in piazza San Carlo, che chiamano El caval ëd bronz. Uno dei simboli di Torino. Ma che l’uomo fosse cocciuto è testimoniato anche dal suo soprannome “testa ëd fer”, testa di ferro appunto. Una caratteristica che lo portò anche a formare un piccolo esercito che partecipò alla vittoriosa battaglia di Lepanto. Alessandria nel 1571, anno della battaglia, non era ancora possedimento dei Savoia, ma a guidare la flotta Cristiana contro i mori, vi era un papà Alessandrino, Pio V.
Ho chiuso i libri e li ho consegnati alla Maestra Ulandi, cuore pulsante del museo. Posso trovare una morale in questi gesti così semplici?
Sì, che il museo “C’era una volta”, ha bisogno di più di una mano e che magari qualche persona di buona volontà è anche disposto a darla. Sarebbe l’occasione buona…
Piercarlo Fabbio

Dalla trasmissione di Radio BBSI: La mia cara Alessandria 213_256 BBSI 23 maggio 2017

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