LMCA: la trebbiatrice Orsi alla battaglia del grano

by Piercarlo Fabbio da: RADIO BBSI ·
In Primavera avrete certamente avuto modo di vedere i campi di grano ancora verde, ma compatti e di colore uniforme, magari non individuando neppure un’erba infestante tra le piantine di frumento, ma vedendo assai bene alcuni trattori mentre lavorano le terre arate per consentire la semina del granturco o di altri cereali.
Il fenomeno qui, in provincia di Alessandria, è così diffuso che il nostro territorio è considerato statisticamente quello che produce le maggiori quantità di cerealicoli in Italia. Una sorta di “granaio della nazione”.
Ma c’è stato un tempo, 
cioè gli anni Trenta, in cui questo primato già ci caratterizzava. Era l’epoca in cui il fascismo proclamò a metà dei precedenti anni Venti, esattamente nel 1925: la “battaglia del grano”.
In effetti nell’allora Regno d’Italia si consumavano circa 75 milioni di quintali di frumento e se ne importavano 25 milioni. Dal canto suo il fascismo tendeva a percorrere, su alcuni versanti economici, l’autonomia. E la “battaglia del grano” diventava il sistema per equilibrare, almeno in agricoltura, il gap della bilancia dei pagamenti con l’estero. Contestualmente il Governo decise i dazi sull’importazione di grano e tolse invece i dazi sul gasolio per autotrazione agricola.
La incipiente meccanizzazione dell’agricoltura poteva così godere di un ulteriore vantaggio, anche perché la battaglia del grano non prevedeva un aumento delle superfici coltivate a frumento, ma una migliore resa per ettaro.
Pareva un’anticipazione dell’autarchia, ma questa arrivò ben dieci anni dopo, nel 1935 ed era basata di sicuro su altre necessità e in questo caso la naturale propaganda con la quale il regime gonfiava le sue decisioni, era sicuramente meglio riposta. Anche se il Duce sulla trebbiatrice Orsi (Tortona) a Littoria o in piedi, in divisa militare, con il fez, e sguardo corrucciato su un trattore a cingoli erano immagini abbastanza consuete sui giornali dell’epoca.

In Alessandria la “battaglia” era stata affidata alla Commissione Provinciale Granaria. La situazione era già abbastanza florida, ma occorreva innovare tecnologicamente la produzione. Non era un problema di latifondi, come si presentò nel Sud del Paese. Addirittura in provincia, la superficie coltivata a frumento tendeva a ridursi. Nel 1931 e nel 1933, la nostra provincia raggiunse i livelli di produzione più alti in Italia. Nel 1931 si produssero 2.570.000 quintali e nel 1933 addirittura 3.050.000 quintali.
Ma ciò che è più importante da rilevare erano le rese medie per ettaro. Nel quinquennio 1920-24, cioè prima della decisione delGoverno Mussolini, le rese erano fissate intorno ai 14 quintali annui, mentre dieci anni dopo tra il 1930 e il 1934, le rese raggiunsero i 18 quintali per ettaro. E salirono ancora a fine anni Trenta.
Ma come si fece a raggiungere questi risultati? Lascio la spiegazione ad un bravo storico che già ho avuto modo di studiare, Giancarlo Subbrero: “L’aumento della produttività fu ottenuto con una serie di pratiche colturali relativamente nuove per l’alessandrino: venne avviata una progressiva sostituzione delle precedenti sementi con grani eletti precoci ad alta produttività; aumentò il consumo di concimi chimici; vennero migliorate le tecniche delle operazioni di semina, delle cure colturali nella primavera e nella rotazione agraria. Infine la ‘battaglia del grano’ comportò una consistente meccanizzazione nelle terre interessate alla coltivazione del frumento con la diffusione di trattori, seminatrici e sarchiatrici”.
Non era però tutto oro quello che luccicava, al solito, perché poterono avvantaggiarsi dei provvedimenti governativi soprattutto le medie e grandi aziende, che avevano risorse economiche proprie da investire insieme agli incentivi governativi. In più vi è da considerare che tutta quest’attenzione sulla produzione del grano, ebbe un contraltare negativo per l’allevamento del bestiame, e per altre colture, specie quelle orticole industriali, che incominciarono a segnare il passo.
Ma una non sconosciuta minaccia stava per ridurre allo stremo un altro settore dell’economia agricola: quello vitivinicolo. Non era la pianura ad essere interessata, ma la collina e, di fatto, un poco tutto il sistema di ampliamento della civiltà rurale che piaceva così tanto al fascismo, abbastanza contrario ad un’urbanizzazione spinta.
Cos’era successo? Nel 1917 si era nuovamente diffusa la filossera, un insetto che conduceva le viti alla morte, attaccando le radici delle piante. Subdolo e quasi invisibile, visto che il pessimo lavoro dell’insetto avveniva sottoterra.
LMCA si è già occupata della filossera e dell’epidemia di fine Ottocento, nonché dei tragici fatti di San Salvatore, con la rivolta dei contadini e dei proprietari terrieri contro le ispezione filosseriche messe in campo dal Governo dell’epoca.
Ma sappiamo anche come venne risolto il problema: le viti americane venivano attaccate dalla filossera fuori terra. Gli insetti si cibavano delle foglie, mentre le viti italiane, come detto, erano sensibili all’attacco delle loro radici. Si sapeva dunque come risolvere il problema, generando cioè una bi-pianta: piede americano, tronco italiano.
Il vero problema dunque non era più quello di trovare un metodo per aggirare l’ostacolo, ma quello delle risorse necessarie per estirpare le vecchie viti italiane e ripiantare completamente i vigneti. Nel 1923 la provincia venne dichiarata zona infetta.
Nel decennio 1923-1933 il reimpianto di un ettaro di vigneto su piede americano aveva un costo compreso tra le 10.000 e le 15.000 lire. Da una vigna si poteva ricavare dalle 3000 alle 5000 lire. Il costo di un bracciante o salariato agricolo poteva giungere fino alle 300 lire il mese, mentre, per farsi un’idea un chilo di pane costava 2 lire e il latte veniva venduto a 1,20 lire al litro.
Quali le conseguenze di questa nuova mannaia? Oltre alla relativa diminuzione di produzione di uva e di vino, si assistette al decremento della popolazione della collina. Nel 1901 nelle colline della provincia vivevano 269.500 persone; nel 1921 scesero a 260.000 e addirittura a 230.000 nel 1936.
Alla difficoltà notoria di non possedere capitali di rifugio, le aziende agricole dovettero fare i conti con la crisi del 1929, che fece crollare i prezzi agricoli. I produttori più piccoli subirono più gravemente queste conseguenze. Molti di loro finirono sul lastrico e dovettero prendere la via dell’emigrazione. E quella più semplice fu dalla campagna alla città, dall’agricoltura all’industria, che in Piemonte, Liguria e Lombardia aveva una certa qual importanza.
Piercarlo Fabbio
Dalla trasmissione di Radio BBSI: La mia cara Alessandria 208_251 BBSI 18 aprile 2017




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