A cinquecento anni dalla Riforma: pensieri sparsi, by, Patrizia Nosengo

di Patrizia Nosengo
Il carattere ancipite della Riforma e del suo iniziatore
Cade in questi giorni il cinquecentesimo anniversario di quel 31 ottobre 1517, cui la mitografia protestante, con l’immagine simbolica e non realistica di un Lutero invasato da Dio che affigge con chiodi e martello le sue tesi sul portale del duomo di Wittenberg, fa risalire l’inizio della Riforma luterana, che frantumò l’universalità del Cristianesimo e dell’Europa e avviò una trasformazione sociale e politica molto più estesa e profonda di quanto gli stessi protagonisti di quella stagione avessero immaginato.
Come annota Lucien Febvre, a margine delle lezioni di un corso tenuto al Collège de France non casualmente nel fatidico 1944-’45,
“[…] è un tedesco, un sassone, quel Lutero […], un tedesco del popolo, del popolo tedesco, insieme così rozzo e così puro, così cantante e così insultante, così brutale e così musicale, è un tedesco che ha scatenato nel XVI secolo, su tutto il mondo cristiano d’Occidente […] una grande tempesta che ha scosso tutto, che ha raso al suolo tanti edifici secolari, che ha reso necessaria una così grande risposta, un così importante rifacimento di tutto l’edificio cristiano. Germania, forte abbastanza per distruggere. Per uccidere. Non abbastanza per costruire. O meglio, questa Germania sa ricostruire solo una cosa. La Germania. E se ha mai sognato, se sogna l’Europa, essa sogna una sola cosa, è inutile che ce lo dica, lo sappiamo: la Germania. […] Una Germania tedesca, dominante, schiacciante, non riunificante.” [1]
Riecheggia in questo brano lo stesso sconcerto per il funesto carattere ancipite, non soltanto della Riforma, ma anche e soprattutto di ciò che potremmo definire il Volkgeisttedesco, con cui Adriano Prosperi apre la sua recente, illuminante ricostruzione della figura di Lutero [2], rammentando emblematicamente come il primo “assaggio” ch’egli, ancora bambino, ebbe della Germania di Lutero sia consistito nella visione di “soldati che uccidevano donne e bambini senza batter ciglio, ma che nella precipitosa ritirata della sconfitta lasciavano dietro di sé volumi di opere di Goethe e una gigantesca Bibbia ottocentesca in caratteri gotici e annotata dalle generazioni di una famiglia” [3].
Quella dualità quasi schizofrenica sembra, dunque, radicarsi nella duplicità di chi è da molti storici indicato come “il fondatore della patria tedesca”, il Lutero della libertà del credente, ma della servitù del suddito, che nell’ambito politico esalta l’obbedienza all’autorità a discapito dello spirito critico e ribelle e, mentre cancella la gerarchia tra sacerdote e fedele e afferma la libertà di coscienza, asserisce essere giustizia divina il massacrare i contadini rivoltosi.
E in effetti è la figura dell’amphibolia, dell’ambiguità e dell’ambivalenza la chiave di lettura più pertinente per comprendere le luci e le ombre che dall’ottobre di cinquecento anni fa ancora si proiettano sul nostro presente, se è vero, come è vero, ciò che, a un mese dalla sconfitta tedesca e dalla morte di Hitler, Thomas Mann richiamava nel discorso tenuto nella Library of Congress di Washington in occasione del suo settantesimo compleanno, vale a dire il nesso inscindibile tra Chiesa luterana, nazismo e Tedeschi [4]. Ed è lo stesso Thomas Mann a tratteggiare con cartesiana clarità l’interdipendenza tra reazione e progresso peculiare della Riforma di Lutero, allorché afferma:
“Essa fu indubbiamente progresso e liberazione – la forma tedesca della rivoluzione, precorritrice di quella francese – ma fu anche una ricaduta nel pieno Medioevo e una quasi mortale brinata sulla timida primavera spirituale del Rinascimento; una mistura dell’uno e dell’altro, una fusione di vita, di azione, di personalità che è impossibile valutare con i puri criteri dello spirito.” [5]
Né il grande scrittore tedesco mostra la benché minima simpatia per Lutero, sebbene egli lo ponga, insieme a Goethe e a Bismark, tra i tre “colossi”, le tre “figure monumentali” della Germania, accomunate da “un’aria di famiglia” e che si ergono, come cime di “opprimente possanza”, sopra la mediocrità del popolo tedesco [6]. Lutero gli pare “una roccia e un destino, una violenta, selvaggia e tuttavia profondamente spirituale e intima esplosione della natura tedesca, un individuo massiccio e delicato insieme, impetuoso e irruento, pieno dell’energia primigenia di un popolo contadino […] non soltanto antiromano, ma antieuropeo, furiosamente nazionalista e antisemita, e insieme profondamente musicale, anche in veste di plasmatore della lingua tedesca” [7], e al tempo stesso contraddistinto da “elementi linguistici rudemente popolareschi” [8] e da aspetti rozzamente mitici e popolani, intriso di impetuosità, furbizia ed energia contadinesche [9], in sostanza un uomo superstizioso, sbalzato dal Rinascimento – il cui umanesimo gli era totalmente estraneo – al Medioevo.
Riforma e Rinascimento: un confronto per comprendere la modernità
Se un tempo la Riforma era intesa come parte fondamentale della civiltà del Rinascimento, come affermava Burckhardt, a partire dal primo Novecento sono molti gli storici che, al pari di Mann, individuano una divergenza, sia pure di diverso grado, tra tali fenomeni culturali e storico-sociali. Identificare la distanza, breve o profonda, che li separa significa accedere ai tratti peculiari della modernità, prescindendo dal mito che lungamente l’ha concepita come età aurea della libertà, dell’ottimismo attivistico, dell’autodeterminazione dell’individuo e del sorgere della razionalità che sarebbero peculiari dell’Occidente.
Basti dunque qui accennare al severo giudizio di Troelsch, che oppone radicalmente alla devozione cupa, al puritanesimo e all’impeto della Riforma l’ottimismo estetizzante del Rinascimento, o la valutazione di Thomas Mann, che contrappone la pacifica cultura, la finezza letteraria, l’urbanità e l’intellettualismo in una certa misura esangui di Erasmo alla possanza plebea e demoniaca di Lutero, al suo impeto contadinesco. [10] Anche Prosperi tende a distinguere nettamente gli intellettuali eruditi rinascimentali, come Valla, o Erasmo, impegnati nella esegesi biblica e nella ricerca filologica del testo originario, assunto come opera storica e quindi umana, da Lutero, per il quale il testo sacro è la parola di Dio resa accessibile agli uomini e che coinvolge tutta la vita del credente, sia nel suo tempo carnale, terreno, sia nell’eternità.
Ma, a ben vedere, sembra in realtà più feconda la concezione di Huizinga, per il quale la maggiore differenza tra Riforma e Rinascimento consiste nel carattere “schiettamente popolare” della prima di contro allo “esclusivismo cortese o erudito, talvolta snobistico” del secondo [11], ma entrambi appartengono più al Medioevo che all’età moderna, giacché il Rinascimento, non meno della Riforma, gli pare una civiltà fondata sull’autorità – il culto degli Antichi – e sulla normatività – la ricerca di norme generali di bellezza, di verità, di governo dello Stato e di virtù. Huizinga adotta la metafora del Rinascimento come un “cambiamento di marea”, un passaggio dal Medioevo all’età moderna non come svolta, bensì “come una lunga serie di onde che vengono a frangersi sulla spiaggia: ciascuna si frange a una distanza diversa e in un momento diverso” [12], cosicché  la linea di separazione tra vecchio e nuovo appare mobile e parziale in ogni suo punto. Vedremo come tale rappresentazione consenta di individuare alle radici della modernità, dunque sia nella Riforma, sia nel Rinascimento, alcuni tratti distintivi che perdurano ancora oggi.
I caratteri principali della Riforma: le luci e le ombre
Come afferma Prosperi, Lutero ha provocato un grande e irreversibile mutamento duplice del mondo “nelle cose e nelle menti”, lasciando ai secoli successivi un persistente lascito di idee [13]. Nell’età della grande rivoluzione geografica, della rivoluzione di Gutenberg, della rivoluzione cosmologica e dell’apice di quella che Prosperi definisce  la “rivoluzione pontificia”, che ingloba la religione nella politica e culmina alla rivendicazione del massimo potere spirituale e temporale del papa, contro le tendenze conciliaristiche del secolo precedente e le diffuse contestazioni alla Chiesa come istituzione, in nome dell’aspirazione a un rinnovamento spirituale della Chiesa, il monaco agostiniano Martin Luder (poi modificato in Luther, da Eleutherius, libero in Dio, liberato da Cristo, com’egli volle chiamarsi, per sottolineare il nuovo modo di sentirsi cristiano [14]) si fece interprete e propagatore dell’istanza di una emendazione della Chiesa dai lussi, dalla mondanità, dall’edonismo e dall’avidità che la contraddistinguevano e introdusse una nuovo quadro valoriale morale, fondato sull’autenticità e il rigore, che restituì senso alla spiritualità cristiana in Germania. Secondo numerosi storici [15], sotto la sferza della Riforma, lo stesso Cattolicesimo trasse dalla controversia con Lutero la forza per un ormai ineludibile rinnovamento spirituale, di cui molti avvertivano da  olto tempo con urgenza l’esigenza; e assistette al ritorno di una più autentica religiosità, fondata sui valori evangelici.
Inoltre, la teologia luterana infranse il principio di autorità, rivendicando il sacerdozio universale e la libertà di interpretazione delle Scritture da parte di ogni credente, attuò il passaggio da una religiosità orale a una fede fondata sulla lettura dei testi sacri, propugnò una religione non più ridotta a pratiche e rituali esteriori, finalizzate soprattutto al controllo sociale, bensì come inesausto e drammatico scrutinio interiore; e concepì la verità cristiana come messaggio che il predicatore ha il dovere primigenio di rivolgere ai semplici e  agli illetterati e non a una élite di eruditi e di teologi. Da tale istanza nasce la scelta di una Sacra Scrittura in volgare, accessibile a tutti i fedeli  e, insieme a essa, nasce il Lutero fondatore della lingua e della letteratura tedesca.
Nei decenni successivi al 1517, come ricorda John Witte [16], i riformatori luterani avviarono nel centro e nel nord dell’Europa il processo di secolarizzazione e di laicizzazione dello Stato: il diritto canonico fu sostituito dal diritto civile, nacquero i primi sistemi di Welfare delle chiese riformate e poi dello Stato, l’educazione prima affidata alle scuole delle cattedrali e dei monasteri fu rimpiazzata da un sistema educativo nel quale, sulla scorta delle concezioni di Filippo Melantone, la scuola divenne pubblica e finalizzata all’educazione civile dei cittadini.
E, ancora, la Riforma concepì un nuovo diritto matrimoniale, che comprendeva la possibilità del divorzio  e riconobbe alle donne un ampio spazio in ambito religioso, sia pure con cautissime e pressoché irrilevanti aperture sul piano del ruolo sociale e dei diritti civili e politici [17], come dimostra la figura della monaca divenuta moglie di Lutero, quella Katharina von Bora che ebbe un ruolo attivo nella predicazione e nel rinnovamento cultuale della sua città.
A fondamento di tali trasformazioni, si poneva il nuovo principio della libertà di coscienza (che è parso a molti storici l’idea centrale e più moderna del luteranesimo), intorno al quale si costituì la nuova religiosità del cristianesimo riformato, estranea al governo esogeno dell’interiorità del fedele e alla scienza morale dei peccati e della “penitenza tariffata” delle indulgenze; e raccolta, invece, nella sofferente, angosciosa consapevolezza dell’invalicabile distanza che separa l’uomo peccatore dal Deus absconditus. Ne discese quella nuova concezione della vita mondana, intesa come manifestazione della fede interiore, che, già presente in Lutero, si sviluppò poi nel Cristianesimo riformato del Calvinismo e delle numerose sette protestanti, contraddistinte da attivismo, apertura alla nuova scienza, rigore morale, impegno nel lavoro, spirito intraprendente [18].
Tuttavia, se infatti è pur vero, come afferma Mann [19], che, senza tale principio e senza la scuola di introspezione del cristianesimo riformato, non sarebbe stato possibile un romanzo come il Werther goethiano e se è indubbio che la concezione della coscienza come sede di conflitti, di angosce e di sofferenze verso se stessi costituisce è un elemento di sorprendente modernità, è altrettanto certo che il cupo pessimismo antropologico luterano, legato alla visione paolina e agostiniana dell’Io, intendeva la coscienza individuale come perennemente intrisa di male, viziata dall’amor di sé, vocata all’errore e inerme dinanzi al peccato, scissa tra l’idea razionale del bene e il premere di istinti ed emozioni, che corrompono anche le opere buone, se non sono sorrette dalla fede. Ed è in effetti la nozione di efficacia della fede ciò cui pervenne Lutero, più che la nozione di libertà di coscienza, così come la intende la modernità. Come osserva Prosperi, Lutero liberava sì il cristiano dalla soggezione al controllo della coscienza da parte dell’autorità ecclesiastica, ma non per affidarlo a se stesso, bensì per renderlo libero soltanto in virtù di Dio e della concessione della sua Grazia per sola fede. Né pare del tutto persuasivo il giudizio univocamente elogiativo di Franco Ferrarotti [20], che riconosce alla nozione luterana di fede il merito di aver aperto la via allo sviluppo dell’idea della più ampia libertà del credente, che sarebbe, secondo il sociologo, anche libertà di dubitare. In realtà, per il teologo tedesco, come per il suo principale riferimento Agostino di Ippona, la libertà di dubitare di Dio non è libertà, così come non è libertà il poter peccare, giacché la via della salvezza è nell’affidamento compiuto a Dio e, dunque, nella fede. Non vi è scelta di indifferenza tra peccato e ben operare: questo è il senso della giustificazione per sola fede peculiare del cristianesimo riformato. E’ evidente come tutto ciò conduca alla negazione del libero arbitrio, al disconoscimento di una moralità naturale dell’essere umano e quindi di una equivalenza tra gli uomini indipendente dalla fede che professano, alla concezione della giustizia come univocamente passiva, cioè concessa da Dio e non costruita dal credente, anzi opposta e incomprensibile per la giustizia umana e alla identificazione dell’umanità come massa di dannati, afflitta dal terrore del peccato, della morte e del giudizio divino, secondo una teratologia che ha perduto i caratteri ludici medievali, per approdare a una esperienza religiosa e a una visione del mondo umano sofferenti e terrorizzanti. Nota Prosperi “la soluzione luterana introduce a un’idea della natura umana che non potrebbe essere più refrattaria alla celebrazione umanistica della dignità dell’uomo” [21] e, nel contempo, si contrappone alla nozione di Dio come amore, peculiare non soltanto dell’Umanesimo e Rinascimento italiano, come Prosperi rammenta, ma – aggiungiamo noi – anche dello stesso Agostino, che nella figura trinitaria del Divino identifica non soltanto come Essere e Intelligenza, ma anche appunto come Amore.
Un secondo elemento problematico, connesso strettamente alla nozione di libertà di coscienza del credente è la polarità che nella teologia luterana si instaura tra la libertà del credente e la schiavitù del suddito, sulla base della dicotomia agostiniana tra uomo spirituale, nuovo, interiore e libero, appartenente alla città celeste e uomo carnale, vecchio, esteriore e schiavo, appartenente alla città terrena. Ora, se l’uomo spirituale è libero e su di lui nulla può la potestà dei principi (e, dunque, se la libertà sussiste in interiore homine, come affermava Agostino), l’uomo carnale è al contrario sottoposto all’autorità costituita, giacché, come scrisse Melantone, estremizzando il concetto teologico del magistrato padre della comunità, “il magistrato è il custode della prima e della seconda tavola della legge per tutto quanto riguarda le esteriori regole di condotta; deve cioè impedire ogni crimine visibile, punire i colpevoli e fornire il buon esempio” [22]. In altri termini, il luteranesimo respinge ogni tentazione ribellistica e più ancora rivoluzionaria e, nel concepire la tesi della “doppia giustizia”- quella divina cui si affida passivamente il credente e quella umana, che discende dalla prima, ma è circoscritta ai comportamenti esteriori, visibili, carnali e non coincide con la fede in Cristo -, finisce con l’espungere ogni possibilità di pensiero critico nei confronti del potere e ogni azione politica, che non sia la soppressione di ciò che impedisce la predicazione della verità della fede. In ciò la Riforma si situa certamente al di fuori del pensiero politico moderno e del suo riconoscimento del valore della legge positiva nell’ambito dello Stato sovrano e dello Stato di diritto, fondato sul consenso dei cittadini; e mostra il suo carattere fortemente reazionario, esplicitato in modo quanto mai lampante, nel linguaggio feroce e impietoso di Lutero dinanzi alla guerra contadina: i contadini “infidi, spergiuri, ribelli, sediziosi ed assassini, predoni e bestemmiatori” sono per Lutero perduti “anima e corpo” e in eterno “preda del demonio”, addirittura “creature del demonio”, associati in “bande diaboliche”; di conseguenza, egli invoca su di loro la spada dell’autorità secolare, affermando “ferisca, scanni, strangoli chi lo può” [23]. Qui si coniugano l’invettiva religiosa, la condanna morale e il progetto politico del mantenimento ferreo dell’ordine sociale, fondato sull’obbedienza del suddito, senza la quale per Lutero ogni autorità è distrutta e il mondo ridotto a un mucchio di rovine. Così come è evidente l’implicita concezione della giustizia secolare come rispecchiamento della giustizia divina anche nella scelta della sanzione nei confronti del sovvertitore dell’ordine costituito: come il Dio luterano è incomprensibile mediante le categorie logiche umane e il castigo ch’egli commina al peccatore è terribile e angosciante, così la punizione riservata in Terra al reo è crudele e impietosa. La responsabilità dell’uomo secolare corrisponde alla responsabilità del credente, l’uno vincolato all’obbedienza nei confronti del potere terreno e dell’ordine sociale, l’altro vincolato dalla fede ed entrambi posti dinanzi a una giustizia che non riconosce altro che l’abbandono totale al signore della Terra e al Signore del Cielo.
Un’ulteriore bipolarità della Riforma è costituita dalla sua radicale svalutazione della cultura secolare e dal suo sfondo anti-intellettualistico. Anzitutto infatti, nella teologia luterana, l’uomo giusto è colui che rinuncia alla giustizia e alla sapienza umane, per lasciare risorgere in lui la giustizia e la sapienza divine; mentre la volontà carnale si dirige verso ciò che è corrotto e costituisce una non-sapienza terrena, che conduce alla partecipazione al delitto che uccide Cristo. In secondo luogo, sebbene sia vero che nel Cinquecento europeo la diffusione della stampa consolidò la distinzione tra il dotto e l’incolto, è ugualmente vero che, almeno in prospettiva, la nozione luterana di sacerdozio universale e di libertà di coscienza nella interpretazione delle Scritture finiva con il frantumare la gerarchia tra chi sa e chi non sa e costruiva un’orizzontalità del sapere che, nel momento stesso in cui diveniva democraticamente esteso a tutti i credenti, rischiava di perdere in profondità e in competenza.
E, ancora, come si è già detto, certamente Lutero si situa all’origine del nazionalismo germanico, non soltanto per la scelta di scrivere in Tedesco la maggior parte delle sue opere e di tradurre in volgare la Bibbia, ma anche e soprattutto per la sua esplicita autorappresentazione identitaria. Quando scriveva “Germanis meis natus sum, quibus et serviam” – “Sono nato per i miei Tedeschi e costoro servirò” – egli affermava un’orgogliosa appartenenza nazionale esclusiva, che, sulla scorta del De Germania di Tacito,  si permeava apertamente di rancoroso sciovinismo, sia nell’identificare la Germania come il Settentrione del rigore e della purezza, contrapposto alla corruzione, all’ingordigia, all’edonismo del Meridione cattolico, sia nel rivendicare la presenza anche nel Nord di persone dotte e non soltanto di sempliciotti, come il complesso di inferiorità nei confronti degli eruditi italiani (“romani”) gli faceva reclamare.
Discendeva anche da ciò uno dei tratti della Riforma già implicato in modo consequenziale dalla nozione luterana di peccato e di fede, vale a dire l’ossessione per la purezza, che condusse soprattutto l’ultimo Lutero verso un feroce antisemitismo e un generico antiumanesimo nei confronti di tutti i non battezzati in Cristo e, infine, di tutti i “papisti”.
Infine, la Riforma, come il cattolicesimo, contribuì a elidere dai paradigmi della cultura occidentale una serie di modelli culturali alternativi (movimenti religiosi ereticali, movimenti politici radicali, culture pagane ed esoteriche, culture tradizionali e saperi femminili, alchimia, astrologia, magia, rinascimentale, “stregoneria” e, successivamente, cultura rosacrociana) [24] ancora presenti nell’Occidente medievale, ma, all’alba della modernità, relegati nell’ambito della superstizione e/o del paganesimo e spesso cancellati mediante l’uso sistematico della violenza. In proposito è peraltro particolarmente significativa la “caccia alle streghe”, che soprattutto nella Germania riformata assunse forme istericamente enfatiche e dimensioni smisurate, estranee all’Inquisizione cattolica coeva, che garantiva una serie di diritti dell’imputato, dalla possibilità di conoscere le imputazioni che gli erano rivolte, alla possibilità di difendersi, anche mediante l’aiuto di un giureconsulto [25]. In sintesi, nell’Occidente luterano, ancor più che nell’area cattolica, si finì con il privilegiare la disciplina, a scapito di tutte le componenti anticonformistiche e dissidenti.
I lasciti della Riforma nell’età moderna e contemporanea
I caratteri ancipiti sia della Riforma, sia del Rinascimento italiano, con le loro reciproche differenze e analogie, si situano alla radice della modernità e ne incidono l’analoga duplicità del volto: razionalità e irrazionalità, libertà e sudditanza, umanesimo e antiumanesimo, riconoscimento e limitazione dei diritti dell’uomo, democrazia e oligarchia, universalismo e particolarismi, fratellanza e razzismo. Ed è da tale duplicità che si proiettano fino a noi le luci e le ombre della Riforma protestante. Si tratta appunto di nulla più che una proiezione, una sorta di ascendente che colora i tratti della contemporaneità, senza esserne affatto l’unica radice e men che meno l’unica causa. Ma se ci soffermiamo a riflettere sui contenuti del luteranesimo, del calvinismo e del puritanesimo, riconosciamo una sorta di aria di famiglia che quei contenuti accomuna a taluni aspetti peculiari del XX e del nostro ormai XXI secolo.
Iniziamo dunque col dire che il percorso della nozione di libertà di coscienza è stato lungo, in parte deviante rispetto alla concezione luterana e al suo cupo pessimismo e, proprio per questa ragione, fecondo di frutti, giacché si è intersecato con l’umanesimo peculiare del Rinascimento italiano, senza soggiacere al principio di autorità del cattolicesimo e ha finito con il riconoscere non soltanto la dignità dell’uomo secolare, quindi del bourgeois, per dirla con Rousseau, ma anche del citoyen, dipanandosi infine – in modo contraddittorio rispetto a ciò che Lutero riteneva – nel Giusnaturalismo moderno e nel riconoscimento dei diritti naturali dell’individuo, a partire giustappunto dal diritto alla libertà, sia nella sfera privata, sia in quella pubblica.
Anche la  concezione negativa dell’uomo peccatore e della coscienza come istanza dilaniata dall’angoscia del male, del peccato, della colpa, della morte e del giudizio divino, che non può trovare riscatto nelle “opere buone”, ma soltanto nella fede, si è declinata in un lungo e durevole sviluppo, attraverso i secoli della modernità e della contemporaneità, sino  a permeare di sé la Weltanschauung occidentale, come appare nella pittura del Novecento, nel romanzo psicologico ottocentesco (Dostoevskij in primo luogo), nella letteratura di lingua tedesca novecentesca e, in una certa misura nella narrativa esistenzialista, nonché nella cinematografia europea tra gli anni Venti e gli anni Settanta del Novecento (Si pensi in proposito a Dreyer, Bergman, Antonioni e Visconti) e nella teoria filosofica della dissoluzione dell’Io soprattutto in Nietzsche. Se infatti già nell’opposizione tra imperativo categorico e volontà sensibile del pietista Kant riecheggia la scissione luterana della coscienza tra la volontà che desidera obbedire a Dio e la volontà carnale, che si dirige verso ciò che è terreno e sensibile, ancor maggiormente, con la sua concezione dell’oblio del motivo originario dell’azione virtuosa e il richiamo alla perenne ricerca di rassicurazione o di piacere in cui si radicano i valori morali, la genealogia della morale nietzscheana ripropone il sospetto di Lutero nei confronti del movente egoistico del buon agire.  In ultima analisi potremmo dire che la cupa teologia luterana, con la sua negazione della giustificazione mediante le opere e il suo pessimismo antropologico e soteriologico sembra sfociare infine nel grande filone del Nichilismo, quando il processo di secolarizzazione cancella dall’orizzonte dell’uomo occidentale la divinità e dunque estingue l’unica fonte della salvezza e della certezza umana, secondo la dottrina della giustificazione per sola fede.
Non pare persuasiva, invece, la tesi di coloro che hanno voluto leggere nel luteranesimo la fonte originaria e diretta  del nazismo e dell’antisemitismo che ha prodotto la tragedia della Shoah, non soltanto per l’ovvia ragione che Hitler era Austriaco e proveniva, dunque, da un’area di cultura cattolica (e non casualmente, in conflitto con l’ala volkisch del partito, ammirava in modo sconfinato la classicità greco-romana e la cultura rinascimentale italiana[26]), ma anche perché, come ha dimostrato George Mosse, nonostante Lutero sia stato esaltato da taluni ambienti nazionalsocialisti e utilizzato nella propaganda soprattutto del partito berlinese, l’antisemitismo era ben presente nel cattolicesimo [27] già a partire dall’età medievale e non può dunque essere considerato come una conseguenza dell’antisemitismo di padre della Riforma. Certamente, comunque, come recita un proverbio inglese, “i peccati hanno le ombre lunghe” e il nazionalismo sciovinista di Lutero, insieme all’identificazione fichtiana del popolo tedesco quale Urvolk, investito della missione di diffondere verità e sapere, in qualche misura rientra alla base dell’orizzonte ideologico della cultura volkisch  tedesca, che tra Ottocento e inizio Novecento, elabora la tesi di una specifica purezza del Tedesco, uomo della foresta, libero e, come gli alberi tra cui vive, ben radicato nella sua terra, parte di una comunità di sangue che è anche comunità spirituale e contrapposto all’Ebreo, uomo del deserto, sradicato, apolide, sedizioso e invidioso, che mira al disfacimento dell’ordine costituito e della libertà della Germania.
Del resto, quell’ossessione della purezza che abbiamo visto implicata per antitesi e contrappasso dalla concezione luterana della inestinguibilità del male e della corruzione del peccato che macchia ogni uomo ed è inemendabile dalle sole forze umane, certamente è una premessa morale che in qualche misura si coniuga con la nozione della cogenza di una punizione crudele e impietosa del peccatore e del reo e si declina poi politicamente nella scelta nazista di praticare l’eutanasia di massa su disabili, malati di mente e delinquenti abituali, senza alcun sentimento di umana compassione, nonché successivamente nella distopia di una comunità ariana pura, cui sacrificare Ebrei, Slavi, Rom, secondo un progetto che non suscitò l’indignazione del popolo tedesco e, per essere sinceri neppure delle Chiese protestanti, se non in casi individuali isolati. Né possiamo dimenticare che il rogo del Corpus iuris canonici, della Summa angelica e degli scritti dei maggiori oppositori di Lutero, attuato dagli studenti e dai docenti dell’Università di Wittenberg e dallo stesso Lutero il 10 dicembre 1520, sebbene riconducibile a pratiche usuali nelle feste popolari dei folli che era tradizione celebrare durante le festività natalizie, suscita oggi l’inquietante l’immagine dei tanti roghi di libri con cui il regime nazista festeggiò i successi elettorali del 1933.
Potremmo anche avanzare l’ipotesi che la visione luterana della responsabilità del singolo e della natura peccaminosa dell’uomo sia lo sfondo contro cui si stagliano due tratti fondamentali della giustizia e della giurisprudenza dei Paesi a maggioranza protestante, fondate su una concezione eminentemente e univocamente retributiva: la tutela preminente delle vittime e non dei rei, che giunge in alcuni Stati americani a prevedere la presenza delle famiglie all’esecuzione dell’assassino di un loro congiunto; e la mancata considerazione del contesto di deprivazione sociale, economica e/o culturale in cui maturano personalità considerate socialmente devianti, una svalutazione che induce al rifiuto di ogni assistenzialismo e all’identificazione di una merito univocamente individuale, che si pretende erompente da salda volontà e da energico rigore, indipendentemente dalle condizioni di vita differenti in cui ciascuno è immerso – incolpevolmente – fin dalla nascita. In ciò emerge con chiarezza la distanza dalla Weltanschauung cattolica, che fonda sull’accoglienza dello sconfitto, del colpevole e del reietto un proprio umanesimo solidale e consapevole del fatto che l’uomo è soggetto al cambiamento e al miglioramento e il merito non è innato o indipendente dal contesto, ma è edificabile, anche mediante compensazioni delle svantaggiate condizioni di partenza dell’individuo. D’altra parte, per riequilibrare il giudizio riguardante tali differenti visioni etico-sociali, possiamo ammettere che non è forse casuale il fatto che la nuova politica della sinistra riformista di area protestante vada elaborando in questi anni il progetto di una transizione dal Welfare alWorkfare, vale a dire dalla redistribuzione dei redditi alla redistribuzione del lavoro, mentre la sinistra italiana oscilla perennemente tra l’assistenzialismo erogato a pioggia ai ceti più deprivati e la mera progressiva erosione dei diritti del lavoro a chi il lavoro lo ha.
E, ancora, un po’ maliziosamente potremmo identificare nel martellante archetipo, caro al governo tedesco, di un Nord-Europa virtuoso, alacre, operoso, dinamico e rigoroso nei conti e di una Europa mediterranea corrotta, spendacciona, epicurea e oziosa, ancora il paradigma utilizzato da Lutero nella contrapposizione tra Germania riformata e Italia rinascimentale.
Anche l’ideal-tipo del buon Prussiano, dedito al lavoro, disciplinato e obbediente fino all’ottundimento del proprio senso morale certamente trova una qualche corrispondenza con la tesi luterana della libertà del credente e della schiavitù del suddito, peraltro ripresa in certa misura anche in quel peraltro magnifico manifesto dell’Illuminismo – l’articolo del 1784 Che cosa è l’Illuminismo– nel quale Kant pone con accenti lirici e severi a un tempo l’istanza della liberazione e dell’autonomia della coscienza, dell’uscita dallo stato di minorità dell’individuo, dell’emancipazione dalla soggezione a chi pretende di pensare per noi, ma riserva una scrupolosa obbedienza ai contenuti del ruolo lavorativo e civile. Vi è nel prussiano Kant, come nel sassone Lutero, il senso dell’obbedienza ai vincoli del ruolo sociale e politico, che negli anni bui del nazismo si ritradusse nella passività dei soldati mandati a morte certa, nel silenzio dei civili rimasti a casa, nella collaborazione di tanti buoni Tedeschi, pronti a denunciare con lettere tranquillamente sottoscritte i vicini israeliti o dissidenti, nella partecipazione di mille piccoli e medi funzionari alla tragedia della Shoah. In realtà, forse, quella che a Hannah Arendt è parsa “la banalità del male” non è altro che il risultato di una Weltanschauung e di una civiltà che dalla Riforma luterana in poi ha postulato la sudditanza civile, quindi esteriore, del Tedesco all’autorità costituita e ha mostrato non soltanto l’inefficacia delle opere buone, ma anche la condizione di dannato, immeritevole di pietà e di aiuto umano, che colpisce l’uomo diverso, colui che non ha fede (dunque, per traslazione, che non ha la stessa fede).
Discorso più complesso è quello riguardante la nuova nozione di sapere che emerge con la Riforma e che intercetta, contemporaneamente alla sua elaborazione, le potenzialità della recente invenzione della stampa a caratteri mobili. Certamente, come già detto, la diffusione degli scritti di Lutero, la sua propensione alla predicazione della verità rivolta soprattutto agli illetterati, l’importanza che la Riforma –soprattutto ad opera di Filippo Melantone – annesse all’educazione del popolo, l’impulso che la nozione di libertà della coscienza e di sacerdozio universale diede all’alfabetizzazione delle masse popolari nelle aree protestanti, rappresentano altrettanti risultati di grande innovazione e democratizzazione del sapere, che sono mancati all’Italia cattolica negli anni cruciali della formazione dello Stato unitario e della democratizzazione e nazionalizzazione delle masse. E tuttavia quel modello di orizzontalità del sapere e di libertà ermeneutica, unito alla personalità popolana di Lutero, al suo rifiuto della cultura dotta e della filosofia e al suo anti-intellettualismo, implicavano già in nuce tratti problematici, che riscontriamo oggi nell’equivalenza delle opinioni cui ha condotto la rivoluzione informatica, con la costruzione di un universo magmatico nel quale le informazioni esperte sono indistinguibili da quelle inesatte, equivocate o corrotte. In tal senso, emerge l’ambiguità della cultura di massa, che è a un tempo estesa a tutti in superficie e negata a tutti o a quasi tutti in profondità e che anzi, più si estende, meno si approfondisce.
Infine, forse possiamo rintracciare ancora lacerti del grande scisma luterano e della traumatica scissione dell’universalità cristiana occidentale, che condusse a lungo ad atroci guerre di religione, sanguinose e terribili come soltanto le guerre di religione possono essere, sia la radice del paradigma amico-nemico che Carl Schmitt applica all’agire politico, sia quella ideologia controversistica scaturita nell’ambito della Controriforma, costituita da insulto personale e radicalizzazione delle divergenze che rammenta in modo notevole le pratiche volgari e immiserenti della politica attuale in Italia.
Ma ciò che maggiormente preme sottolineare, in conclusione, è che la riforma morale luterana e la riforma che anche la Chiesa cattolica seppe costruire in conseguenza della traumatica scissione della Cristianità alle soglie dell’età moderna paiono oggi largamente illanguidite in ogni parte dell’Occidente – a Nord e a Sud delle Alpi, a Est e a Ovest del Reno -, che ha perduto se stesso e pare ormai declinare in quel tramonto finale paventato da Spengler e implicito nel suo stesso nome, Occidente, appunto, Abendland, “Terra della sera”. Tramontate le grandi ideologie della modernità, ridotte a mere narrazioni, a miti buoni per raccontar favole ai bambini, congedati i riferimenti spirituali e filosofici del passato, stravolti i quadri valoriali fondati su principi un tempo concepiti come universali e oggi incerti e opinati, tradite le speranze nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, forse, come direbbe Mann, venuta meno l’energia spirituale attiva e dinamica dell’Europa, l’oggi ci sprofonda nell’eterno precipitare privo di punti di riferimento dell’infinito nulla di nietzscheana memoria.  L’unica speranza, dunque, pare essere una nuova, imminente riforma spirituale dell’Occidente, senza la quale sarà l’Islam reazionario ad assumere il ruolo di unica alternativa a edonismo, consumismo, individualismo e concorrenza spietata che costituiscono oggi l’unico orizzonte della nostra parte del mondo e forse del mondo intero.
[1] Febvre, Lucien, L’Europa. Storia di una civiltà, Feltrinelli, Milano, 2014, pag. 302
[2] Prosperi, Adriano, Lutero. Gli anni della fede e della libertà, Mondadori, Milano, 2017
[3] Prosperi, Adriano, cit., pagg. 11-12
[4] Mann, Thomas, La Germania e i Tedeschi, in Scritti storici e politici, Mondadori, Milano, 1957, pagg. 548 e segg.
[5] Mann, Thomas, La posizione di Freud nella storia dello spirito moderno, in Nobiltà dello spirito, Mondadori, Milano, 1997, pag. 1352
[6] Mann, Thomas, I tre colossi, in Nobiltà dello spirito, cit., pagg. 375 e segg. Sono qui dedicate a Lutero le prime pagine del testo (pagg. 375-380)
[7] Ivi, pagg. 376-377
[8] Mann, Thomas, Goethe, rappresentante dell’età borghese, in Nobiltà dello spirito, cit., pag. 174
[9] Mann, Thomas, Goethe, una fantasia, in Nobiltà dello spirito, cit., pag. 356
[10] ibidem
[11] Huizinga, Johan, Il problema del Rinascimento, Donzelli, Roma, 2015, pag. 80
[12] Ivi, pag. 94
[13] Prosperi, Adriano, cit., pag. 17
[14] Si veda in proposito Kaufmann, Thomas, Lutero, Il Mulino, Bologna, 2007, pag. 7
[15] In particolare sostiene questa tesi il tedesco Heinz Schilling. Cfr. Schilling, Heinz,Martin Lutero. Ribelle in un’epoca di cambiamenti radicali, Claudiana, Torino, 2016
[16] Witte, John jr., Diritto e protestantesimo. La dottrina giuridica della Riforma luterana, Liberlibri, Macerata, 2014, pagg. 331 e segg.
[17] Cfr. Felici, Lucia, La Riforma protestante nell’Europa del Cinquecento, Carocci, Roma, 2016, pagg. 242 e segg.
[18] Per quanto chi scrive si ritenga in larga misura gobettiana, certamente non può che riconoscere che l’idea di Gobetti di una mancata Riforma protestante all’origine dei mali che affliggevano – e affliggono ancor oggi – l’Italia, così come la tesi weberiana di un nesso tra Riforma calvinista e nascita del capitalismo, appaiono oggi meritevoli di una robusta rivisitazione critica, sia perché la Riforma non fu un fenomeno unitario, sia perché i caratteri etici che entrambi i pensatori riconoscono alla Riforma erano in realtà presenti già in età tardo-medievale, soprattutto nelle città mercantili Europee e in particolare italiane.
[19] Mann, Thomas, Goethe. Una fantasia, cit., pag. 361
[20] Ferrarotti, Franco,  Attualità di Lutero. La Riforma e i paradossi del mondo moderno, EDB, Milano, 2017, passim
[21] Prosperi, Adriano, cit., pag. 105
[22] Filippo Melantone, Opera quae supersunt omnia, cit. in Firpo,  Massimo, Il problema della tolleranza religiosa nell’età moderna, Loescher, Torino, 1983, pag. 66
[23] Martin Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini, cit. in Firpo, Massimo, cit., pagg. 60-63
[24] Si veda Galli, Giorgio, “Introduzione”, in Weber, Max, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991, pag. 26 e segg.
[25] In proposito, Levack, Brian P., La caccia alle streghe in Europa, Laterza, Roma-Bari, 1999
[26] Si veda in proposito Chapotout, Johann, Il nazismo e l’Antichità, Einaudi, Torino, 2017
[27] Mosse, George, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto, Laterza, Roma-Bari, 1985

Elvio Bombonato: Saggio corposo, ampio totale onnicomprensivo, di altissimo livello concettuale, sintetico nonostante le dimensioni. La panoramica è effettuata per scorci, monadi apparentemente, in realtà disposti secondo una precisa e pensata strategia. E’ il metodo che usava Gianfranco Contini nei suoi saggi più impegnativi (es. quello memorabile sul linguaggio di Pascoli oppure gli scritti su Croce e De Sanctis). Lo stile, di registro inevitabilmente e sanamente elevato, brilla in virtù di una sintassi complessa ma fluida, mossa, “more” geometrico dimostrata, e quindi leggibile, col sapiente uso del crescendo e del diminuendo emotivo, che si trasmette al lettore e ne cattura l’attenzione. Non mancano alcuni aprosdàketon (effetti sopresa), come il puntuale e rigoroso riferimento, in nota, all’ipotesi gobettiana, che non mi convinse neppure quando avevo 20 anni. La mia stima per l’opera scritta, poltica e organizzativa di Gobetti è infinita. Il lessico appare icastico, coerente rispetto alla coesione dell’enunciato, con qualche scelta “lemmatica” raffinata fuori binario, talvolta metaforica (es. le citazioni di Thomas Mann) di voluta infrazione alla norma o all’uso, come ben sanno fare gli autori dei pamphlet. Insomma un idioletto norenghiano (con la gutturale prepotente).









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