“Come immerso in una colata di cemento”: l’inutile tortura, Gian Piero Armano

Il punto ● Gian Piero Armano
L’accorata lettera di Michele Gesualdi, uno dei “ragazzi” più vicini a don Milani, presidente della Provincia di Firenze per due legislature, malato di SLA, nella quale implora che il Parlamento  italiano si affretti ad approvare la legge sul testamento biologico, mette in evidenza il colpevole ritardo che ha impedito di avere una legislazione laica adeguata per chi si trova coinvolto dalla malattia che non può avere sbocchi di guarigione e diventa una progressiva marcia verso la morte.
Non c’è dubbio che la denuncia e la petizione pubblica di Gesualdi comporti l’andare ben oltre il problema politico e sociale e metta la coscienza del credente (e di chi non lo è) di fronte al problema dell’uso della propria libertà riguardo al fine-vita.
Già il card. Martini aveva fatto cenno alla problematica del fine-vita e lui stesso ad un certo punto della sua malattia ha detto no all’accanimento terapeutico, spiegando che non è una forma di eutanasia e precisando che non ci sono regole generali per stabilire se l’intervento medico sia appropriato, richiamando l’importanza di non trascurare la volontà della persona malata. Egli infatti disse: “La crescente capacità  terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni impensabili. Senz’altro il progresso medico è  ormai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo  umano richiedono un supplemento di saggezza per non promulgare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona”.

Ma, oltre a questo, è importante anche l’impegno di alleviare la sofferenza del malato, che è un impegno di misericordia e di rispetto alla vita, perchè la vita è qualcosa di sacro, di stupefacente: basta riflettere sul lungo viaggio di ogni forma di vita nel corso dei secoli per considerarla sacra, in particolare la vita umana dal momento del concepimento fino alla fine.
Il valore della vita, inoltre, si esprime secondo diverse forme, tutte importanti, avvalorate nel corso della storia dai vari pensieri filosofici, che noi chiamiamo  vita biologica, vita animale, vita psichica, vita logica, vita spirituale. Nel nostro linguaggio abituale noi ricorriamo genericamente alla parola “vita”, ma il termine racchiude in sé questi vari aspetti.
Il rispetto per la vita, quindi, deve essere esteso a tutte queste diverse forme in modo tale che siano tra loro in armonia. Purtroppo ci sono situazioni, esperienze e comportamenti che ledono a questa armonia, che creano lacerazioni e conflittualità. La malattia, come la SLA, crea una disarmonia tra la vita biologica, la vita psichica e la vita spirituale. Le malattie croniche e inguaribili producono un conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali: quando si espande questa disarmonia come si deve intendere il rispetto alla vita?
Personalmente ritengo che sia fondamentale in queste circostanze il rispetto della coscienza e della libertà della persona ammalata.
E’ vero che possiamo trovarci di fronte a chi, nella piena consapevolezza della sua coscienza, accetti di rispettare la vita biologica, anche se minacciata da percorsi inguaribili, a scapito della vita psichica e spirituale: sono coloro che, nel nome della propria fede o di altre convinzioni, ritengono un valore accettare la sofferenza come segno di partecipazione responsabile al dolore diffuso nel mondo. Chi si dispone a vivere la malattia irreversibile in questo modo, merita tutto il nostro rispetto e il riconoscimento della sua forza e del suo coraggio.
Ma meritano altrettanto rispetto tutti coloro che non riescono o non vogliono che la vita biologica prevalga sulle altre forme di vita, non accettando la disarmonia provocata dalla malattia irreversibile.
Si deve prendere atto che ciò che è un valore per una persona, non è detto che lo sia per un’altra; ciò che può essere edificazione per uno, per un altro che la pensa diversamente si può tramutare in tortura. Una diversa concezione della vita può produrre una diversa etica e da essa si possono raggiungere valutazioni differenti nei confronti di situazioni concrete.
In questi casi che cosa significa rispettare la sacralità della vita? E’ più sacra la vita biologica o la vita spirituale che salvaguarda la coscienza e la  libertà della persona?
Rispettare la vita di una persona, a mio modesto parere, significa rispetto per la sua coscienza e la sua libertà e ciò avviene se il malato può disporre dell’autodeterminazione. Da qui nasce l’esigenza che il sentimento di rispetto si concretizzi dal punto di vista politico istituzionale in una adeguata legislazione riguardante la libera autodeterminazione che consenta a ciascuno di decidere della propria  morte. Il diritto alla vita è indiscutibile, ma non può essere imposto come un dovere: nessuna persona deve essere costretta a vivere subendo una continua tortura, come la Gastrotomia Endoscopica Percutanea (PEG) o con la tracheotomia quando ci sono difficoltà respiratorie.
Michele Gesualdi con la sua lettera chiede allo Stato questo, ma lo Stato è da anni che latita: la legge non è ancora stata fatta per una serie di ingerenze indebite e di interessi che sono diventati ostacoli e che hanno prodotto ritardi e accantonamenti di varie proposte di legge, quando in altri paesi è da anni che questo problema è stato affrontato ed è stata trovata una soluzione, anche se non sempre perfetta.
Ma vorrei evidenziare, in quanto credente, alcuni aspetti che Michele Gesualdi, credente pure lui, mette in risalto a proposito del rapporto fede-malattia irreversibile.
Prima di tutto egli ribadisce che la vita è dono di Dio e in quanto tale deve essere vissuta bene e mai sprecata. Ma aggiunge: “accettare il martirio del corpo della persona malata, quando non c’è nessuna speranza né di guarigione né di miglioramento, può essere percepita come una sfida a Dio”. Non avevo mai pensato che si possa sfidare Dio con il martirio del proprio corpo, quando non si hanno sbocchi di guarigione.
Quasi a dire: ti resisto con la mia malattia! Ma se si considera il comportamento di Gesù di fronte alla sofferenza e alla malattia, dobbiamo constatare che la sua missione in questo mondo è stata quella di porre rimedio al dolore dei sofferenti, di restituire l’integrità della vita a coloro che si sentivano limitati, disprezzati o minacciati e fare in modo che quanti si vedevano privati della loro dignità si sentissero persone degne e meritevoli di rispetto. Per Gesù ciò che era più urgente e pressante era fare il possibile perché la gente soffrisse di meno.
Sulla croce Gesù non ha voluto sfidare Dio Padre: ha affidato a Lui il suo  spirito, si è rimesso alla sua volontà, così la morte è stato il primo passo per la risurrezione, per far trionfare la vita.
L’altro aspetto che mi ha colpito nel contenuto della lettera di Gesualdi è il senso di carità/pietà che esprime per i suoi familiari  che lo vedono così torturato dai mezzi invasivi per tenerlo in vita: “Ti resta solo l’angoscia per le persone che ami e che ti amano…”. La possibilità di poter scegliere di morire senza fare ricorso ai mezzi invasivi sarebbe una liberazione dalla sofferenza anche per loro, sarebbe donare loro la possibilità di uscire da un dramma.
E, per concludere, vorrei augurare a Michele Gesualdi la opportunità di vedere un parlamento che si rimbocca le maniche e fa la sua doverosa parte (ma ne dubito) per consentire ai malati come lui, di trovare uno sbocco dignitoso per uscire dalla sofferenza e dalla tortura.








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