DIAFRAMMA ZERO di rebeccastories

Preferisco stare in silenzio, immobile, ad ascoltare il rumore di persone lontane, i suoni brillanti degli uccelli, il lieve sospirare dei rami morti.
Se dovessi farmi fiore, con questa pelle, e con queste viscere delicate, forse sarei papavero.
Il mio cuore al centro è sottile e sempre teso; come un timpano. 
Poi vado a correre un po’ quando il cielo si fa umido e scopro che sulle punte fini dei rami fioriscono già alcune gemme di pioggia. Pare un messaggio segreto; ma che vuol dire? Non saprei, io catturo l’ovunque dentro il mio diaframma cardiaco e lo celebro come opera mia. 
Poi immergo le dita nel grumo di quei fiori cotonati (quelli coi granelli che paiono spiriti). Sono morbidi e ruvidi allo stesso tempo, come piccoli animali freddi. Prima ho messo i piedi al centro di un tronco tagliato. Ho sentito subito un certo formicolio che vi saliva su. Forse l’essenza – l’energia vitale di tutti gli esseri viventi – rimane ben radicata alla propria dimensione, oltre la falsa linea orizzontale del tempo. E poi gli alberi sono gli esseri viventi che preferisco. Paiono così pacati e imperturbabili. Ma se invece fossero consumati dall’odio e dall’ira? Se quell’essenza vitale, la stessa che porta loro a ramificare verso la terra e verso il cielo, fosse sorretta solamente da un autentico e assurdo furore? D’altronde l’odio e l’amore vibrano alla stessa frequenza.
Vorrei dormire sotto un albero, ma dentro la terra, ingabbiata fra le sue radici. Vorrei essere il suo seme e il suo più grande segreto. Ma è probabile che debba aspettare ancora un po’, un gradino sopra. Certo che, distesi sull’erba, si respira molto bene l’infinito.

L’infinito è quella pacifica malinconia che rende pesante il petto e che rivela la sua vera natura estranea, attaccata ad una gravità ben più leggera, perché si addice all’universo (di cui ne conserva ancora un bagliore originario) e non all’asfalto. Siamo solo animali, col senso del sublime. È più importante il nostro apparire o il nostro essere? Eppure il nostro essere probabilmente non lo conosciamo, non lo conosceremo mai, oppure non esiste. Allora forse è meglio l’apparire. E visto che ci sono mi scatto una foto col foro stenopeico di una foglia. Stampo la mia immagine sopra un sasso e, inaspettatamente, una manciata di nuvole mi suggerisce qualcosa all’orecchio: l’identità umana – intendono quella cerebrale, genetica, caratteriale – è solo la cornice di un pezzetto di nulla cosmico.
L’altro giorno ho sognato di pescare molti pesci piccoli. All’improvviso ho deciso di usare un’esca bella grossa e ho catturato un pesce enorme. Un pesce tutto nero, dalle squame lucide e sfumate come le piume dei corvi. L’ho sbudellato come avevo fatto con tutti gli altri; dentro era come un fungo porcino pieno di piccoli vermi. Era vivo e nel frattempo che tagliavo abbiamo iniziato a parlare. Ci siamo innamorati. Così mi sono convinta ad immergerlo in una vasca piena d’acqua, anche se oramai di organi ne aveva ben pochi. Del suo corpo era rimasto solo un lieve involucro vuoto. Aveva anche i capelli riccioli. Lo baciavo, lui parlava ed io lo baciavo, ma non avevo il coraggio di rivelargli che non sarebbe sopravvissuto a lungo. Nessun amore fra due esseri viventi dovrebbe essere chiamato amore. Ieri invece ho sognato l’eclissi, aveva uno strano effetto sul mio corpo. Mi rendeva una bestia ardita capace di volare.
Qui dentro, nel mio covo di terra e di sesso, di sensi, di carte, d’educazione, di vestiti, d’infatuazioni, di fumo e di rumori – proprio qui dentro – sono una creatura. Magnifica.
Ma lassù, oltre questa gravità, forse potrei essere molto di più.


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