L’importante retrospettiva a Locarno 70, lo scorso agosto, Nuccio Lodato

by, Nuccio Lodato
“Se mi mandano un copione, giro. Non ne ho mai rifiutato uno. Sono come un falegname: se mi danno un pezzo di legno fabbrico qualcosa, se non me lo danno rimango fermo”
Jacques Tourneur

Come abbia fatto Maurice Thomas, di cui al precedente articolo, a trasferire anagraficamente al proprio figlio il suo cognome d’arte Tourneur non è dato sapere, e non è stato possibile reperire fonti atte a chiarire la questione. 
Comunque il giovane Jacques –di cui ricorre quest’anno il quarantennale della morte- segue il padre negli Stati Uniti: è un bambino di dieci anni, che a quindici acquisirà, due anni prima della naturalizzazione paterna, la cittadinanza statunitense (non eravamo ancora ai tempi di Trump oltreoceano e delle assurde barricata contro lo ius soli da noi!). 
Siamo negli anni, sia pur di poco, antecedenti all’affermazione di Hollywood come nuovo centro produttivo del cinema, che avrebbe preso corpo solo con gli anni Venti. 
Lo seguirà nuovamente al suo ritorno definitivo in Francia, all’inizio del sonoro, ma solo per tornare definitivamente nella sua seconda nazione individualmente nel ‘36, dandovi non troppo tempo dopo inizio al decisivo sodalizio col geniale produttore indipendente Val Lewton.

Si sarebbe rivelato, il “tornitore”, un artigiano (come si diceva limitativamente allora, per negare l’aureola dell’autorialità: oggi sarebbe solo un riconoscimento aggiunto, tanto raro quanto ambìto!) bravissimo tanto nel genere che oggi si definirebbe horror (ma di che livello: tutto basato su quanto non si vede e si lascia intuire e fantasticare allo spettatore, ragazzi: non sugli effetti e sull’oltranzismo senza fine dello splatter!) come nel noir, nell’avventuroso –genere all’epoca estremamente in voga-  e nell’altrettanto popolarewestern. Il suo Ho camminato con uno zombi, tanto per dire, ai pur rispettabilissimi quanto celebratissimi zombies di Romero (con tutto il rispetto per l’osannato maestro da poco scomparso) fanno decisamente un baffo.

In uno dei film più ambiziosi ma meno riusciti di Wim Wenders, l’oltretutto interminabileFino alla fine del mondo (1991: titolo-omen minaccioso…), il personaggio della protagonista, interpretata da Solveig Dommartin, ha nome Claire Tourneur. «Perché è la traduzione francese di Wenders», come spiegava con diligenza l’attrice, all’epoca compagna di vita dell’autore e corresponsabile dell’infelice quanto presuntuoso soggetto. In verità l’affermazione risulta dubbia: per quel poco di francese rimasto in testa, «tourneur» significa come anticipato “tornitore”, ma i webtraduttori almeno negano la soddisfazione di omologare quanto asserito dalla sfortunata protagonista, mancata molto prematuramente dieci anni fa (e che era proprio parigina, neppure alsaziana o lorenese, a dispetto del suono e dell’aria germanica di nome e di aspetto). 
Duole constatare che, almeno a impressione di chi scrive, il suo sodalizio recitativo e di ideazione-scrittura con Wenders non abbia prodotto la fase più aurea (all’epoca già trascorsa) del lavoro del maestro: Il cielo sopra Berlino è proverbialmente sopravvalutato e del suo seguito Cosìlontano, così vicino manco a parlarne. Del precedente, ben più riuscito e presumibilmente galeotto Tokyo-Ga, Dommartin era stata solo una dei montatori, e in Fino alla fine delmondo la cosa che resterà eterna è la madre cieca e morente di Jeanne Moreau (senza per questo, beninteso, niente togliere alla grandezza complessiva, superba, dell’autore dell’inarrivabile Nel corso del tempo e non solo di quello).
E’ da chiedersi se invece la scelta di quel cognome avesse una valenza di omaggio, agli occhi non dell’interprete ma del regista, antico frequentatore bulimico della Cinémathèque parigina, dove certo i film dei due Tourneur si riaffacciavano, allora come oggi, di frequente.
L’invito a questo punto chiaramente si estende: non più solo al piacere di farsi retrospettivi, senza neppure aver potuto raggiungere per la meritoria rassegna agostana la costosissima Locarno (le risate, anch’esse proprio di quarant’anni fa con Adelio Ferrero e Alberto Farassino, quando si ipotizzava di tornare  un momento in Italia per una buona cena con lo stesso importo di un panino in piazza Grande…). Ma a quello di riscoprire il piacere, insieme sensoriale e concettuale, fornito dalla gioia ineffabile del bianco&nero (non facciamo troppo i passatisti, però).
Come già il padre, anche il figlio è un tipico cineasta cui è applicabile, con ancora maggior materia a disposizione, il gustosissimo gioco del raffronto tra il lessico Mereghetti e il Morandini: il lettore volonteroso potrà divertirsi.
Dopo i primi tre lungometraggi realizzati in Francia all’imbocco del sonoro, dei quali si sono un po’ perse le tracce come dei primi, successivi corti dopo il riapprodo negli Stati Uniti, Jacques continua a farsi le ossa nel genere popolare riprendendo il vecchio investigatore Nick Carter creato da Smith e Coryell mezzo secolo prima, ricorrente nel muto e riesumato dal sonoro, in un mediometraggio eponimo del ’39, facendolo incarnare dall’allora attor giovine ma non giovanissimo Walter Pidgeon, che l’avrebbe reimpersonato l’anno successivo per Seitz e di nuovo nel ’42 per lo stesso Tourneur, in due ulteriori puntate inedite da noi.
Poi la disamina, anche per ragioni di spazio, va condensata, visto che Tourneur jr ha firmato oltre quaranta film, per non dire della tv, tra il ’31 e il ’65. D’altra parte è agevole reinviare chi legge a due pregevolissime pubblicazioni, recenti e reperibili, in grado di dare fondo alle più dettagliate curiosità: il bel libro di Francesco Ballo, gloria degli alessandrini editori Falsopiano (2008) Jacques Tourneur: la trilogia del fantastico e il ricchissimo speciale monografico, cui ha concorso il fior fiore della critica mondiale, dedicato al regista dalla rivista “La Furia umana” dell’amico Toni d’Angela (n. 5, 2010).
Ragion per cui, paradossalmente, rinviando anche al lavoro di Ballo si sorvolerà proprio sui tre più noti e indimenticabili film davvero da brivido di Tourneur, Il bacio della pantera, il già citato Ho camminato con uno zombi e L’uomo leopardo, tutti e tre (1942-43) suggeriti e supportati dal genio produttivo di Val Lewton (al secolo Vladimir Leventon, suo coetaneo e originario di Yalta in Crimea, a sua volta naturalizzato statunitense, e che sarebbe stato purtroppo tolto di mezzo dalla prematurità di una trombosi pochi anni dopo).
Tourneur continua sul genere melò-gotico con Schiava del male di Hedy Lamarr (1944: erano anni propizi a simili operazioni, si pensi a capolavori coevi quali La scala a chiocciolae Lo specchio scuro di Siodmak, o il supremo La iena di Wise, che non a caso ha dietro di sé il racconto di Stevenson, ma soprattutto ancora Lewton come produttore e sceneggiatore, sotto il nom de plume di Carlos Keith…).
Abbandonata la pista nero-orrorifica, Tourneur firma sempre nel ’44 forse il suo film più singolare: Tamara figlia della steppa è un bellico-resistenziale, singolarissimo in quanto apologia statunitense della resistenza sovietica: aveva già fatto la stessa, rarissima cosa l’anno precedente Milestone con Fuoco a Oriente. Il divampare della guerra fredda, sostanzialmente a conflitto alleato ancora in corso, già pochi mesi dopo, avrebbe stroncato sul nascere il paradossale filone: l’anticomunismo avrebbe, e non solo negli Usa, tentato la cancellazione ad memoriam della resistenza e degli stessi partigiani. Certo che vedere Dana Andrews e Farley Granger con Milestone, e addirittura Gregory Peck per Tourneur, militare sotto la stessa rossa sulla visiera è uno spettacolo da non perdere, grazie anche agli irresistibili doppiaggi d’epoca, intelligentemente salvati dai dvd. Milestone e la sua sceneggiatrice, che era addirittura Lillian Hellman, sarebbero finiti da lì a qualche anno addirittura sotto le attenzioni della commissione McCarthy. Tourneur poté invece continuare indisturbato a sfornare film su film.

Mi limito a questo punto, anche per pungolare la curiosità dell’eventuale lettore, a segnalare soltanto i personalmente più amati: innanzitutto il rutilante La leggenda dell’arciere di fuoco (1950, con Lancaster e la Mayo), forse l’unico film hollywoodiano ambientato… in Lombardia fantasticamente medievale: il protagonista si chiama Dardo ed è una specie di Robin Hood in salsa padana e a vocazione antigermanica). Wichita (1955), generoso western contrassegnato dal convinto uso del ricorso al cinemascope nei suoi anni aurei, che assegna un ulteriore risvolto alla figura storica dello sceriffo Wyatt Earp (anche se l’edizione nostrana gli mutò assurdamente nome…). La notte del demonio(1957) altro capolavoro assoluto in cui la regìa torna ai fasti della trilogia e forse addirittura, più che rinverdirli, li supera, con Dana Andrews, il suo attore feticcio, di nuovo protagonista.

Come un collega d’una quindicina d’anni più anziano ma in fondo produttivamente coevo e parallelo, Raoul Walsh, Tourneur sa transitare con estrema disinvoltura e sicurezza da un genera a un altro.
Sono anche western I conquistatori (1946, sempre con Andrews), a suo modo Il grande gaucho (1952), L’alba del gran giorno  (1956); di nuovo noirs Le catene della colpa (1947, con Mitchum per la prima volta protagonista), L’alibi sotto la neve (1956) e, sarcasticamente, Il clan del terrore (1963); thrillers Il treno ferma a Berlino (1948) e La cortina del silenzio (1991); melodrammi Il gigante di New York (1948, con Mature: “uno di quei film minori che giustificano l’ammirazione che la critica francese concede a Tourneur” secondo Morandini) e La piovra nera (1958); avventurosi La regina dei pirati (1951), I ribelli dell’Honduras (1953), La prigioniera del Sudan (1959). Viene perfino stancamente a Cinecittà, negli anni della pacchia “Hollywood sul Tevere”, quando davvero gli statunitensi del cinema trovavano l’America in Italia, a firmare una Battaglia di Maratona con Steve Reeves (!), realizzato in realtà da Vailati e Bava. Chiude con un singolare fantasy, 20.000leghe sotto la Terra (1965).
Con tutto l’insopportabile eccesso lutulento di fanatismo di autori ed editori, tv digitali e satellitari, reti e fanzines, analisti e spettatori che oggi circonda oltre l’inverosimile il genere cd. horror –per riprendere il discorso iniziale- una piccola full immersion nella filmografia di Tourneur consentirebbe a noi tutti di tornare ad abbeverarci, visivamente, emotivamente e concettualmente, al lavoro sapiente di uno che, avrebbe detto il vecchio buon Blasetti, «lui sì che lo sapeva fare, il cinematografo!».
Lo ha spiegato molto bene uno dei due curatori della retrospettiva ticinese di agosto, Rinaldo Censi, nello scritto di presentazione dell’autore inquadrato:
Quando Jacques Manlay chiede a Jacques Tourneur notizie riguardo a Appointment in Honduras è il marzo 1977, e Tourneur vive ormai da anni in Francia, a Bergerac, lontano dal cinema. L’intervista televisiva che ha realizzato insieme a Jean Ricaud per il canale FR3-Bordeaux (intervista che proponiamo all’interno della retrospettiva) è un documento importantissimo che consigliamo a tutti di vedere. Alla domanda Jacques Tourneur risponde spiegando ai due una piccola trovata, un meccanismo molto conosciuto negli Stati Uniti: il “Messaggio per Garcia”. “Il ‘Messaggio per Garcia’ è quella storia in cui un generale chiama a rapporto Garcia e gli dice: ‘Ecco, potrebbe consegnare questa nota al generale tal dei tali, da qualche parte in mezzo alla giungla?’ ‘Signorsì’, risponde Garcia. E se ne va. Tutta la storia si regge sul modo in cui Garcia troverà quest’uomo nella giungla. È l’esempio che si porta sempre quando si parla di linea diretta in un film. Qui Glenn Ford doveva consegnare dell’oro attraverso la giungla dell’Honduras”.
Proviamo allora a considerare questo come un “Messaggio per Garcia”, rivolto però a tutti gli spettatori, a tutti i cinefili del Festival. Vedetevi tutti i film realizzati da Jacques Tourneur, a partire dagli anni ’30 fino agli anni ’60. Seguite questa linea, e vi accorgerete che l’avventura non mancherà neppure qui. Lasciatevi trasportare dal bianco e nero spettrale dei film horror targati RKO (Cat People, I Walked With a Zombie, The Leopard Man), dagli struggenti flashback noir di Out of the Past e del bellissimo Nightfall, fate in modo che i vostri occhi assorbano le tinte cromatiche del Technicolor (la veste gialla di Ann Sheridan in Appointment in Honduras, il fazzoletto rosso da pirata di Capitan Provvidenza/Jean Peters in Anne of the Indies). E che dire dei magnifici western che Tourneur ha filmato? Canyon Passage, Great Day in the Morning, Wichita: tre film superbi, unici, articolati come scatole cinesi, tra morale, violenza e sentimenti. E poi monotipi come Stars in my Crown – una delle sue vette assolute, con un magnifico Joel McCrea, e ancora Night of the Demon. Affrontando questo viaggio, è la radiografia del cinema che fa capolino. Francia, California, Inghilterra, Italia: Tourneur ha lavorato in qualsiasi condizione produttiva, sperimentando ogni genere, dando sempre il meglio di sé.
Ma allora, il “Messaggio per Garcia”? Il generale da raggiungere attraversando la giungla era Jacques Tourneur. Non è forse questa la morale del nostro viaggio?
Jacques Tourneur in home video: sono disponibili molti dei film menzionati
 Jacques Tourneur on line
Il bacio della pantera (1942): http://bit.ly/bacio-pantera
La notte del demonio (1957): http://bit.ly/notte-demonio





Commenti

Post più popolari