Cosa significa?


Questa pagina si prefigge l'obiettivo di cercare di dare una risposta sintetica a termini e modi di dire, nell'economia, nel marketing e in altri settori, che solitamente usiamo, leggiamo o sentiamo pronunciare, ma che non sempre tutti noi ne conosciamo l'esatto significato. Ovviamente come al solito, sono ben accetti suggerimenti e commenti in merito.
Pier Carlo Lava
30 agosto 2014


Cosa significa?

Hikikomori: mi dissolvo
Il sol levante è portatore di novità, di tecnologie avanzate, di una quantità di suggestioni figlie di una cultura diametralmente opposta a quella occidentale; in particolare, il Giappone è una terra affascinante e per certi versi incomprensibile a noi poveri occidentali.
Ad esempio, è notizia recente quella di una donna giapponese invalida che ha rifiutato di farsi pagare una pensione d’invalidità dallo stato. Strano, assurdo, incredibile.
Sì, per noi che viviamo in un mondo popolato da falsi invalidi con pensioni d’oro, è un bel po’ strano.
Tuttavia, il Giappone è sempre fonte d’ispirazione, sia nel bene che ne male.
Nasce in Giappone il fenomeno Hikikomori, che è a tutti gli effetti una sindrome che colpisce soprattutto gli adolescenti, un fenomeno che, fino a qualche anno fa, sembrava non aver colpito l’Italia, ma che invece negli ultimi anni pare essere sbarcato anche da noi, quasi fosse una moda.
L’hikikomori è un ragazzo che a un certo punto della sua esistenza decide di isolarsi dal mondo e dalla realtà che lo circonda, si chiude in camera e lì passa le sue giornate. La camera diventa il luogo fisico, dove egli conduce la sua vita, luogo che a poco a poco si ammassa di oggetti, di resti di cibo, di sporcizia, di polvere, quasi come se gli oggetti diventassero essi stessi hikikomori e non potessero più uscire da quel luogo, così come chi li possiede. Oggetti che, in qualche modo, lo riportano in quella realtà che egli vive e osserva solo attraverso un computer.
Egli vive di notte, di giorno oscura le finestre, odia la luce. La notte si rifugia nei social network, nei forum, dove incontra altri hikkikomori come lui, creando quasi una rete. Un po’ come accadeva qualche anno fa (ma forse accade ancora), con le adepte di Ana, la dea dell’anoressia, fenomeno quanto mai preoccupante che vedeva coinvolte centinaia di ragazze che, da un giorno all’altro, avevano messo su una rete di blog dove si scambiavano consigli su come dimagrire in fretta e su come essere sempre fedeli ad Ana (e guai a sgarrare!).
 Alienante.
L’ikikomori trasferisce nello spazio angusto della sua camera tutta la forza e l’onnipotenza che non riesce ad avere fuori da lì, nella vita vera, quasi come se vivesse dentro un videogioco dove egli è l’eroe, e in quello spazio l’hikkikomori crea, inventa, scrive, produce.
In Giappone il fenomeno è in fortissima espansione; si contano già più di un milione di casi.
Uscire dall’isolamento è difficile se non impossibile, curare dei soggetti in hikikomori è un’ardua impresa, perché rifiutano di lasciare il loro habitat e nessuno riesce a raggiungerli. Inoltre, aspetto da non trascurare è la non volontà di tornare a un’esistenza normale, perché la loro è una scelta, è un’auto esclusione dalla vita.
L’hikkikomori smette di avere bisogni pratici, non si cura di sé, del suo aspetto fisico, il suo unico bisogno è quello di espandersi mentalmente attraverso la rete, attraverso la scrittura, la pittura, la creatività.
La cosa realmente preoccupante di questo fenomeno è che l’hikkikomori finisce con l’appassire, perché si nega al sole, alla luce, ai rapporti sociali, e piano piano, deperisce e muore.
Sì, l’hikikomori è un alienato, non per natura, ma per scelta, sebbene esistano delle cause scatenanti che portano il soggetto a voler fuggire dalla realtà; ad esempio, soggetti che per natura molto timidi o che sono costantemente oggetto di scherno da parte dei coetanei sviluppano una forma di repulsione e di rifiuto verso quella società che, di fatto, ride di lui.
Tuttavia, non bisogna relegare il fenomeno a semplice apatia o forma acuta di timidezza. È qualcosa di più, è come un morbo che pian piano si espande a macchia d’olio e che sta coinvolgendo sempre più paesi, compresa l’Italia, anche se in forme diverse.
Secondo alcuni psicoterapeuti, come la Dott. Carla Ricci, autrice del libro: “Hikikomori: adolescenti, volontà di reclusioni”, il fenomeno in Italia ha preso una piega diversa e presenta dei lati meno feroci, ad esempio l’isolamento non è quasi mai totale: gli hikikomori italiani, a differenza dei giapponesi, accettano di consumare i pasti coi genitori, e di vedere, di tanto in tanto, un amico con cui passare delle ore. Questo è dovuto anche a una differente organizzazione della società e della famiglia rispetto al Giappone, dove il fenomeno è visto dalla società come un’onta e qualcosa da nascondere, per cui le famiglie non se ne preoccupano e preferiscono, anzi, agevolare l’esclusione dell’adolescente nel tentativo di nasconderlo al mondo.
Tuttavia il fenomeno italiano, pur essendo ancora marginale, desta già preoccupazione; sempre più genitori lamentano nei loro figli una sorta di apatia e di disinteresse verso tutto, per cui sempre più spesso gli adolescenti vengono affidati alle cure di psicoterapeuti e questo, in qualche modo, fa da argine a una degenerazione della patologia.
Quanti di noi non hanno attorno amici che passano la maggior parte della loro vita davanti a un pc? Che se gli chiedi: ehi, usciamo a farci una pizza? Ti rispondono: no, devo ultimare il livello, di non so quale diavolo di gioco di ruolo! Ce ne preoccupiamo? Avvertiamo che anche noi spesso ci lasciamo andare a momenti di tremenda apatia, che ci risucchia le energie e ci spegne?
Ho idea che questo fenomeno sia lontano dall’arrestarsi, magari non sfocerà mai nelle forme di totale reclusione, ma sicuramente le nuove generazioni si stanno sempre più alienando, e sempre più spesso si rifugiano in un mondo a parte, dove si sentono eroi, insuperabili, onnipotenti, anche se in realtà, sono fragili e indifesi.
E voi che ne pensate? Credete sia la solita moda esportata dal Giappone o è qualcosa che accomuna tutti gli adolescenti del mondo a prescindere dal paese? E credete che la tecnologia abbia esacerbato il fenomeno?






foto: www.outsourcing-pharma.com

Cosa significa l’Outsourcing?
L'esternalizzazione, anche detta outsourcing (parola inglese traducibile letteralmente come "approvvigionamento esterno"), è in economia e organizzazione aziendale, l'insieme delle pratiche adottate dalle imprese o dagli enti pubblici di ricorrere ad altre imprese per lo svolgimento di alcune fasi del proprio processo produttivo o fasi dei processi di supporto.
Benché aziende specializzate nella fornitura di servizi produttivi alle imprese esistano sin dai primi anni sessanta, come sottolineato da Van Mieghem (1999), il termine outsourcing venne usato per la prima volta solo nel 1982. Come spesso accade nella teoria economica, specialmente quella legata al ramo aziendalistico, negli anni novanta il termine diventò di colpo molto popolare tra i manager.
Il ritorno delle fasi del processo produttivo all'interno dell'azienda (inhouse) sono chiamate backsourcing. All'inizio oppure alla fine dell'esternalizzazione si verificano spesso situazioni di sovrapposizione chiamate internalizzazione.
Il significato esatto del termine outsourcing
Nonostante il termine outsourcing sia conosciuto, il suo significato non è univoco.
Alcuni economisti lo utilizzano per indicare il caso speciale in cui il committente (in inglese outsourcer) dipende totalmente dal fornitore (in inglese outsourcee) per l'approvvigionamento, perché non è, o non è più, in grado di svolgere da solo l'attività oggetto di contrattazione. Essi distinguono quindi questo caso da quello più generale di appalto o di subfornitura (subcontracting), in cui al contrario il subappaltante rimane in grado di svolgere con mezzi propri l'attività oggetto del contratto (cfr. ad es. Van Mieghem, 1999).
Altri utilizzano il termine outsourcing per riferirsi a quelle situazioni in cui un'impresa instaura una relazione bilaterale con un'altra impresa per lo svolgimento di attività che richiedono asset specifici, e dunque infungibili. In questo caso l
a discriminante non è il possesso di requisiti del committente, ma la natura degli investimenti necessari allo svolgimento delle attività esternalizzate (cfr. ad es. Grossman and Helpman, 2005; Leimbach, 2005).
In entrambi i casi comunque, il termine implica una qualche forma di stabilità del rapporto di "collaborazione" tra l'impresa e il terzista.
Altre volte il termine, in italiano o in inglese, è utilizzato in modo più generico per riferirsi a qualsiasi decisione di ricorso al mercato per l'approvvigionamento di beni intermedi e/o servizi alla produzione. Quando inteso in tal senso, l'esternalizzazione è misurata dal rapporto tra il valore dei beni intermedi e il valore totale della produzione dell'impresa (cfr. ad es. Strassman, 2004; Yu, 2005).
In ogni caso, alcuni fanno notare come l'aspetto veramente nuovo dell'esternalizzazione non sia il generico ricorso al mercato per l'approvvigionamento di beni intermedi, ma il fatto che il peso di questi nella catena del valore delle imprese stia crescendo significativamente (cfr. ad es. Lin and Tsai, 2005).
Nella gestione qualità secondo il modello ISO 9001 è considerato outsourcing il processo (di realizzazione del prodotto) affidato all'esterno ma che potrebbe essere svolto (oppure è svolto parzialmente) all'interno avendone il know-how. Negli altri casi si tratta di acquisto di un servizio/lavorazione e non di affidamento all'esterno: questa è una distinzione importante non solo per gli aspetti legali/contrattuali ma soprattutto di carattere operativo.
L'esternalizzazione di servizi
Alcuni economisti usano la parola esternalizzazione esclusivamente con riferimento alle pratiche di esternalizzazione dei servizi alla produzione (in inglese business services o producer services) (cfr. ad es. Domberger, 1998), il cosiddetto service contracting-out.
Il crescente ricorso al mercato per lo svolgimento di servizi collaterali alla produzione e alla vendita e sviluppo prodotto (si pensi alla gestione del personale, all'amministrazione e finanza, ai servizi informatici, alla manutenzione, alla logistica, alle pulizie, alla portineria, alla mensa, agli affari legali, alla sicurezza e qualità, alla strategia, al marketing, alla pubblicità e comunicazione, alle ricerche di finanziamenti, ai progetti di delocalizzazione, ecc.) è visto così come l'elemento nuovo caratterizzante la strategia seguita dalle imprese, sia pubbliche che private, nell'ultimo decennio.
Un'impresa o un ente della PA ha processi principali (ovvero quelli connessi direttamente alla realizzazione del prodotto o erogazione del servizio) e processi di supporto. Negli ultimi decenni si è assistito ad un rapido incremento delle quote di outsourcing anche di attività (se non, addirittura, l'intero processo) rientranti nelle aree di supporto (vedi elenco, non esaustivo, sopra), a fianco del tradizionale affidamento di fasi/processi produttivi. Il mercato della consulenza aziendale è stato quello che si è fatto carico del fenomeno dell'affidamento all'esterno di attività e incombenze di carattere gestionale-amministrativo. Ma anche le associazioni di categoria hanno assorbito elevate quote di questo genere di domanda da parte delle aziende.
L'esternalizzazione internazionale
A volte gli economisti usano il termine esternalizzazione riferendosi alla dimensione internazionale (in inglese international o foreign outsourcing), anche in questo caso in modo non univoco.
Per alcuni l'esternalizzazione internazionale indica le partnership internazionali (cfr. ad es. Van Long, 2005), assumendo così un livello minimo di durabilità della relazione tra le parti.
Altri utilizzano il termine con riguardo alle generiche decisioni di ricorso ai mercati internazionali, quindi ad imprese straniere, per l'approvvigionamento di beni e servizi intermedi (Campa and Goldberg, 1997; Feenstra and Hanson, 1999).
Qualcun altro infine usa il termine con riferimento esclusivamente all'esternalizzazione internazionale di servizi (cfr. ad es. Amiti and Wei, 2004; Bhagwati, Panagariya, and Srinivasan, 2004).
Esternalizzazione internazionale e delocalizzazione
Si parla a volte di outsourcing internazionale utilizzandolo come sinonimo di delocalizzazione, tuttavia i due concetti andrebbero tenuti distinti.
La delocalizzazione (offshoring) si riferisce all'organizzazione internazionale della produzione. In particolare, si vuole fare riferimento alla crescente specializzazione verticale delle economie nazionali derivata dal commercio internazionale: parte del processo produttivo viene riallocato dall'impresa oltre i confini nazionali, spesso in cerca dei vantaggi derivanti dallo sfruttamento della manodopera a basso costo o della legislazione più permissiva in materia di tutela ambientale dei paesi in via di sviluppo oppure infine dal trattamento fiscale agevolato verso gli investimenti stranieri. Da questo tuttavia non deriva necessariamente l'esternalizzazione della fase del processo, perché lo stesso può rimanere entro i confini dell'impresa, laddove svolto da una sua filiale estera o comunque da un'impresa che fa parte dello stesso gruppo. L'attività produttiva fuoriesce dunque dai confini nazionali, ma non necessariamente da quelli dell'impresa.
Nell'esternalizzazione internazionale, al contrario, per la produzione del bene o la fornitura del servizio ci si rivolge ad un'altra impresa che opera fuori dai confini nazionali. In questo senso l'attività produttiva fuoriesce sia dai confini nazionali che da quelli dell'impresa.
La teoria
Spinti dall'evidenza empirica circa la crescente diffusione delle pratiche di esternalizzazione, sin dai primi anni ottanta gli economisti si sono interrogati sulle ragioni che spingono le imprese a ricorrere all'esternalizzazione.
Esternalizzazione e teoria dell'impresa
In una prospettiva microeconomica, il problema può essere visto come un nuovo modo di guardare al vecchio problema posto da Ronald H. Coase (1937) circa le determinanti dei confini dell'impresa. In altre parole, si tratta di individuare i fattori che giocano un ruolo nella decisione di produzione interna o ricorso al mercato, la Make or buy question.
Da questo punto di vista la questione si risolve nell'individuazione di quei fattori il cui cambiamento ha portato a ridisegnare i confini delle imprese.
A tale scopo sono stati utilizzati gli strumenti concettuali sviluppati all'interno della teoria dell'impresa. Così, ad esempio, nell'ambito della teoria dei costi di transazione originariamente proposta da Oliver E. Williamson negli anni settanta, l'esternalizzazione e gli altri fenomeni di disintegrazione verticale dell'impresa sono stati messi in relazione con la diminuzione dei costi di transazione generata dalla diffusione delle nuove tecnologie informatiche.
In questo modo, la grande impresa degli anni cinquanta si muove verso il modello delle imprese a rete, la rete di piccole e medie imprese consorziate per fare massa critica, competere nei mercati internazionali, mantenendo la loro flessibilità produttiva.
Nell'ambito della teoria dei diritti di proprietà, formulata più di recente da Oliver Hart (1995), si è argomentato invece che, non esistendo alcuna relazione monotonica necessaria tra costi di transazione e grado di integrazione verticale, la diffusione dell'esternalizzazione è da ricollegarsi principalmente alla diminuita complementarità degli asset associata con la diffusione delle nuove tecnologie, essendo tale complementarità secondo questa teoria l'unica variabile correlata positivamente con l'integrazione verticale.
Nel primo decennio del XXI secolo, il problema dell'esternalizzazione va ponendosi in modo rilevante anche per le amministrazioni pubbliche italiane, sull'onda della diffusione della teoria economica della regolamentazione.
Esternalizzazione e costi di produzione
Le teorie sopra descritte non tengono tuttavia in alcun modo conto dei costi di produzione come di una delle possibili determinanti del grado di integrazione/disintegrazione verticale. Altri economisti si sono invece concentrati sui possibili effetti che l'esternalizzazione può avere su tali costi.
I modi individuati attraverso cui l'outsourcing può aumentare l'efficienza produttiva riducendo i costi di produzione sono i seguenti:
aumento del livello di specializzazione nello svolgimento di certe attività
rifocalizzazione sulle competenze distintive (core competence) dell'impresa
- aumento della flessibilità dell'impresa, sia operativa che strategica
- obbligo per l'impresa di sottomettersi alla "disciplina del mercato"
- sfruttamento dei vantaggi derivanti dall'utilizzo di manodopera a basso - - - costo per lo svolgimento delle mansioni meno qualificate
Specializzazione ed economie di scala
Per quanto riguarda le diminuzioni dei costi derivanti dall'aumento della specializzazione conseguente all'outsourcing, queste sono strettamente collegate alle economie di scala, sia statiche che dinamiche, e alle differenti fonti di tali economie: tecniche, organizzative, statistiche e collegate al potere di mercato.
Dal punto di vista della teoria della produzione, Morroni (1992) fa notare che in tale ottica l'esternalizzazione può essere giustificata solo ammettendo la discontinuità della relazione tra costi medi e scala di produzione.
In pratica le attività collaterali, non raggiungendo una scala di produzione minima al di sopra della quale diventa conveniente svolgerle internamente, possono essere utilmente esternalizzate a imprese specializzate in tali attività, che dunque servono più imprese.
Competenze distintive e esternalizzazione: la lean organization
L'esternalizzazione è stata anche affrontata dal punto di vista della gestione strategica, analizzandone pro e contro e cercando di costruire una guida operativa in grado di orientare efficacemente le decisioni degli operatori in materia.
In tale senso sembra orientata la recente letteratura sullo strategic management che ha enfatizzato il ruolo guida chiave delle core competences (Prahalad e Hamel, 1990) o competenze distintive (distinctive capabilities) (Kay, 1993) nelle decisioni di esternalizzazione. In particolare, viene consigliata una strategia di "rifocalizzazione" sulle competenze core dell'impresa attuata tramite l'esternalizzazione delle attività collaterali.
La teoria d'impresa distingue quindi aree aziendali core e non core e nell'ottica della lean organization (dall'inglese letteralmente "organizzazione snella") tutto ciò che non è core business può essere esternalizzato.
Non è core tutto ciò che è parte dei cosiddetti processi di supporto, che, diversamente da quelli primari, non contribuiscono alla creazione di un output (prodotto e/o servizio) che ha un valore percepito dal cliente finale, che ha dunque una domanda di mercato e per il quale il cliente è disposto a pagare un price premium.
La lean organization, focalizzata sui suoi prodotti e sul cliente, dovrebbe essere più competitiva e avere maggiori possibilità di crescita e profitto.
Perciò, in tale ottica l'esternalizzazione non è limitata alle imprese in difficoltà economiche, che altrimenti potrebbero fallire o licenziare. È praticata, anche più diffusamente da quelle con forti utili e investimenti per la crescita, dalle imprese che sono nel settore cash cow di una matrice Boston Consulting Group. Per tenere il trend di crescita, le imprese devono investire, ma anche riorganizzarsi al meglio, e per fare investimenti, talora si reperiscono risorse tagliando i costi.
Ciononostante, è importante notare come una tale strategia può comportare una diminuzione dei costi di produzione solo ipotizzando implicitamente che lo sviluppo delle competenze distintive implichi necessariamente costi fissi. In pratica, dunque, questo modo di guardare al problema non è differente dal precedente, che mette in risalto i vantaggi in termini di aumentata specializzazione produttiva.
Esternalizzazione come fenomeno guidato dall'offerta
Ancora riguardo ai vantaggi della specializzazione, è interessante osservare che, come notato da alcuni economisti, la recente diffusione dell'esternalizzazione può essere anche letta come un fenomeno supply-driven, ossia guidato dall'offerta.
Domberger (1998) ad esempio osserva che la quantità crescente di imprese che forniscono servizi alla produzione può essere vista anche come una delle cause, oltre che l'effetto, della crescente diffusione dell'esternalizzazione di servizi, in quella che è una sorta di retroazione almeno in parte auto-alimentata.
Esternalizzazione e flessibilità
Alcuni studi hanno anche evidenziato come l'esternalizzazione possa di fatto aumentare la flessibilità delle imprese attraverso la riduzione dei costi di adattamento (adjustment costs).
A questo riguardo va innanzitutto distinta la flessibilità operativa da quella strategica. La prima si riferisce alla capacità delle imprese di adattare la quantità e le caratteristiche della produzione entro un intervallo ben definito di alternative. La flessibilità strategica al contrario può essere definita come la capacità dell'impresa di rispondere in modo efficace ai cambiamenti del contesto (Sanchez, 1995).
Le determinanti della flessibilità, sia strategica che operativa, sono sia di ordine tecnico sia organizzativo.
Assumendo che i costi di adattamento aumentino in modo più che proporzionale con la dimensione assoluta dell'adattamento richiesto, l'esternalizzazione può di fatto ridurre i costi distribuendoli tra più imprese (cfr. ad es. Carlsson, 1989; Domberger, 1998).
Inoltre, si è notato come l'esternalizzazione possa anche aumentare la flessibilità strategica diminuendo la dimensione dell'impresa e quindi aumentando la velocità nell'adozione delle nuove tecnologie (Dean, Brown, e Bamford, 1998).
Molti autori hanno anche evidenziato il ruolo prominente dell'esternalizzazione nella gestione delle risorse umane nel contesto dell'accresciuta ricerca di flessibilità del lavoro (cfr. ad es. Richbell, 2001; Marsden, 2004).
Strettamente connessa a questo problema è la questione circa la natura della relazione esistente tra flessibilità interna dell'impresa e il cd external job churning. Alcuni economisti ipotizzano infatti che il costante tentativo di abbattimento dei costi fissi delle imprese attraverso riorganizzazione della produzione abbia in particolare portato alla sostituzione della flessibilità interna nell'uso del lavoro con un external churning (letteralmente "sommovimento esterno") dei lavoratori. In pratica si argomenta che, mentre prima le imprese sopportavano il costo di risorse umane inutilizzate nei periodi di bassa domanda, oggi cercano di "esternalizzarlo", creando così la necessità che siano i lavoratori stessi a sopportare il costo della riallocazione.
In un lavoro empirico, Cappelli e Neumark (2004) hanno testato questa ipotesi contro quella alternativa di complementarità della flessibilità interna ed esterna del lavoro, trovando alcune evidenze in favore della prima, almeno nel caso delle imprese manifatturiere statunitensi.
Esternalizzazione e "disciplina del mercato"
Si è anche argomentato da parte di alcuni economisti che la diffusione dell'esternalizzazione sia in parte dovuta alla necessità che le imprese, sia pubbliche che private, sentono di sottomettersi alle leggi di mercato per aumentare l'efficienza allocativa delle risorse che utilizzano.
Così, ad esempio, Domberger (1998) sottolinea come molte imprese private, e la maggior parte delle organizzazioni che operano nel settore pubblico, non sono in grado di stimare il costo su base disaggregata dei servizi collaterali alla produzione che svolgono e questo inevitabilmente allenta la possibilità di controlli sul budget. Di conseguenza, mentre una stima dei costi basati sull'attività non è una soluzione praticabile quando queste attività sono svolte internamente, lo diventa non appena sono esternalizzate, perché si acquistano ad un prezzo di mercato ben determinato. Questo, insieme alla scissione delle figure di colui che fornisce il servizio e colui che lo acquista, dovrebbe avere effetti positivi sull'efficienza complessiva.
Esternalizzazione e differenziali salariali
Migliaia di operai in una fabbrica cinese assemblano e collaudano sistemi a fibre ottiche.
Un ruolo importante tra le determinanti dell'esternalizzazione, in particolare internazionale, è giocato dalle differenze nel costo del lavoro.
Per quanto riguarda i confini interni, si argomenta che l'esternalizzazione di fasi di produzione, diminuendo la dimensione delle imprese coinvolte nel processo, diminuisce così anche il grado di sindacalizzazione degli operai, indebolendone la forza relativa nelle rivendicazioni salariali.
Ma i differenziali salariali giocano un ruolo indubbiamente più importante nelle decisioni di delocalizzazione, che a volte comportano anche esternalizzazione internazionale, operate dalle imprese dei paesi più sviluppati che sfruttano così i vantaggi comparati dei paesi in via di sviluppo nella produzione dei beni ad alta intensità di lavoro.
Il ruolo svolto da tali fattori nelle decisioni di esternalizzazione internazionale, e più in generale nei fenomeni di specializzazione verticale e frammentazione internazionale, è l'oggetto di un numero crescente di lavori di taglio sia teorico che empirico.
Si discute in particolare su quale sia stato l'effetto delle decisioni di delocalizzazione e esternalizzazione sulla cresciuta diseguaglianza sociale sperimentata dalle economie sviluppate negli ultimi anni, in particolare il cosiddetto high-skill bias della domanda di lavoro, che ha portato a una crescita dei differenziali salariali tra cd colletti bianchi (in inglese white collar o high-skill labor) e colletti blu (in inglese blu collar o low-skill labor).
Il contratto di esternalizzazione
Dal punto di vista giuridico, l'esternalizzazione può essere definita come "l'accordo con cui un soggetto (committente o outsourcee) trasferisce in capo ad un altro soggetto (outsourcer, o provider, o vendor, o partner,) alcune funzioni necessarie alla realizzazione del proprio scopo imprenditoriale". Recentemente la Cassazione se ne è occupata definendola come "il fenomeno che comprende tutte le possibili tecniche mediante cui un'impresa dismette la gestione diretta di alcuni segmenti dell'attività produttiva e dei servizi che sono estranei alle competenze di base (l'attività centrale)" (sentenza n.21287/2006).
Si tratta di un negozio giuridico nato dalla prassi di Common law che non ha una disciplina specifica nell'ordinamento italiano e rientra dunque nei contratti atipici.
L'esternalizzazione può di fatto avvenire in molti modi e le parti possono regolarla utilizzando sia contratti tipici che contratti misti. I negozi tipici più utilizzati a tale scopo sono:
Tutela dei dipendenti in caso di trasferimento o cessione del ramo di azienda
Diritti e tutela in caso di cessione di ramo d'azienda riguardano essenzialmente il contratto di lavoro pregresso.
Il lavoratore non ha la garanzia di essere ceduto ad un'azienda che ha analoghe prospettive industriali e di crescita professionale personali, misurabili come fatturato, utile e quota di mercato, numero di dipendenti o produttività del lavoro. La legge non prevede restrizione alla libertà di cessione nemmeno ad azienda in utile e in forte crescita, e dunque con un'elevata produttività del lavoro (fatturato e utile per addetto).
Le normative di interesse sono:
1. art. 2112 del Codice Civile (6 commi)
2. art. 47, legge 428/1990 (6 commi)
3. artt. 1 e 2 del Decreto Lgs. 18/2001 (sostituisce l'intero articolo di cui al punto 1) e i commi da 1 a 4 di cui al punto 2))
4. artt. 31 e 32 (Titolo IV) del Decreto Lgs. 276/2003 (integra il comma 5 di cui al punto 1) e ne aggiunge un sesto)
In ambito comunitario:
1. la Direttiva 1977/187/CE, non più vigente, per promuovere l'armonizzazione delle legislazioni nazionali relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori e chiedere ai cedenti e ai cessionari di informare e consultare in tempo utile i rappresentanti dei lavoratori
2. la Direttiva 1975/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi(5), e delle norme legislative già in vigore nella maggior parte di essi
3. la Direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro;
4. la Direttiva 1998/50/CE
5. la Direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti
6. la Direttiva 2002/14/CE
La cessione di ramo d'azienda dovrebbe avere un carattere di eccezionalità, ma nell'individuazione delle persone non esiste un limite al numero di cessioni di ramo d'azienda in cui un dipendente può essere coinvolto nell'arco della vita lavorativa.
L'art. 2112 del codice civile disciplina il trasferimento del ramo di azienda o della cessione di un suo ramo autonomo. La norma prevede che il rapporto di lavoro prosegue con l'imprenditore che subentra, ed il lavoratore conserva tutti i diritti che aveva in precedenza. L'art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428, ribadisce che, in caso di trasferimento di azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Introduce la non-applicabilità della tutela ai lavoratori che restano alle dipendenze dell'azienda alienante, e che siano eventualmente assunti dall'acquirente in data successiva al trasferimento di azienda. Salvo questo caso, il nuovo contratto di lavoro non può essere peggiorativo nel caso di fusione o acquisizione, e quindi il trattamento retributivo globale del lavoratore, il livello di inquadramento e la mansione corrispondente devono essere uguali o migliori di quelle del rapporto di lavoro precedente. Analoga considerazione non è valida per gli eventuali contratti integrativi interni, stipulati a livello aziendale fra sindacati e imprenditore. Se il sindacato firma un accordo favorevole all'esternalizzazione o ad una fusione, il lavoratore perde tutti i benefit e bonus che erano contemplati nel contratto di secondo livello dell'azienda di provenienza, conformandosi al contratto di secondo livello dell'azienda di destinazione, che otre e non prevedere benefit e bonus.
Prima della riforma Treu la cessione doveva preservare l'unità e il valore economico dell'azienda, e tipicamente riguardava cespiti non strumentali all'attività produttiva, quali tipicamente i servizi di pulizia e sorveglianza e altri processi di supporto, che non erano visti e non creavano valore economico per il cliente finale. Era definito ramo d'azienda un'entità funzionale ed autonoma all'interno del perimetro d'impresa. La legge prevedeva tre requisiti:
- autonomia
- funzionalità
- preesistenza del ramo rispetto al momento della cessione
In base a questi requisiti, potevano essere cedute società, divisioni, reparti o unità funzionali che erano anche strumentali all'attività produttiva.
Il requisito di funzionalità e autonomia restringeva l'ambito delle aree esternalizzabili, ed è stato abrogato per un certo periodo; con la legge del 5 luglio 2002 erano le parti contraenti a definire il ramo d'azienda, che viene a poter essere praticamente qualunque ambito d'impresa. Il Decreto Lgs. n. 18 del 21 febbraio 2001 sostituisce l'art. 2112 del Codice Civile e i primi 4 commi della 428/1990.
La Direttiva 2001/23/CE è sostanzialmente identica alla 1977/87/CE, amplia le tipologie contrattuali di applicazione, estendendola ai contratti a tempo determinato e interinali (art. 1), mentre limita in modo altrettanto forte le situazioni di impresa. L'art. 5 limita drasticamente l'applicazione delle tutele dei lavoratori in caso di "procedura fallimentare o analoga situazione di insolvenza,[...], o in caso di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da un'autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario". Infine, al comma 4 di tale articolo, non recepito dalle leggi italiane, la Direttiva prevedeva il rischio di abusi, di trasferimenti di lavoratori ad aziende fatte fallire, con lo scopo di licenziare e/o di cedere ad altre aziende quote di debiti dell'impresa: "Gli Stati membri adottano gli opportuni provvedimenti al fine di impedire che l'abuso delle procedure di insolvenza privi i lavoratori dei diritti loro riconosciuti a norma della presente direttiva".
Il Decreto Lgs. 18/2001 recepisce la Direttiva e modifica la 128 del 1990, ma non negli ultimi due commi, appunto quelli che già prevedevano restrizioni al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda.
La legge n. 223 del 23 luglio 1991 afferma un principio nella direzione opposta della libertà di licenziamento. Con la nozione di licenziamento collettivo, per riduzione o trasformazione dell'attività, si presenta la possibilità di licenziare con la causale di esigenze tecnico-produttive. In caso di cessione di ramo d'azienda, o in un periodo precedente di ridimensionamento dell'azienda, questa legge può essere utilizzata, in contrasto con la giurisprudenza successiva. Nel 1991, questa legge e il precedente decreto citato anticipano una successiva tendenza della giurisprudenza europea, manifestata con la Direttiva del 2001.
La Direttiva 2001/23/CE è richiamata dalla seguente Direttiva 2002/14/CE, che impone di conciliare obblighi informativi e di consultazione dei sindacati con le esigenze di riservatezza aziendali, unitamente a sanzioni pecuniarie e penali, in merito all'andamento presente e alla probabile evoluzione dei risultati economici e dell'occupazione.
La Legge n. 39 del 1º marzo 2002 ha dato delega al Governo per l'attuazione di varie direttive comunitarie, fra le quali è citata la Direttiva 2001/23/CE. Con questo atto era inteso da parte del Parlamento che si rendevano necessarie modifiche e/o integrazioni al vigente Decreto Lgs. 18/2001, che questo non attuava completamente la Direttiva comunitaria.
Il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002 (o "Patto Scellerato" come fu chiamato da alcuni all'epoca, Rassegna Online - Governo, Patto per l'Italia, documento integrale) prevedeva la revisione del Decreto Lgs. 18/2001 per la parte che modifica l'art. 2112 del Codice Civile, e il recepimento della Direttiva 2001/23/CE, in materia di armonizzazione dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda ([1]).
Il successivo Decreto Lgs. n. 276 del 10 settembre 2003, art.32, (recante "Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge n. 30 del 14 febbraio 2003, la Legge Biagi) modifica il quinto comma all'art. 2112 del Codice Civile, aggiungendovi una nuova definizione di trasferimento di ramo d'azienda: "Qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di una attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l'usufrutto o l'affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento" ([2]). Introduce anche un sesto comma, all'art. 2112 del Codice Civile, che interessa un altro ambito, quello dei rapporti del subappaltatore con i fornitori.
Diversamente da quanto previsto il 5 luglio 2002, il citato Decreto 276/2003 non modifica (nemmeno ne fa menzione) né la 428/1990 né il Decreto Lgs. 18/2001, ma opera direttamente sull'art. 2112 del Codice Civile. Recepisce la Direttiva 2001/23/CE e la successiva 2002/14/CE dell'11 marzo 2002 (EUR-Lex - 32002L0014 - IT) in tema di armonizzazione delle norme di informazione e consultazione dei lavoratori.
Il Decreto del 2003 ribadisce che l'individuazione dell'area da esternalizzare spetta all'azienda alienante e all'acquirente, come nella precedente normativa del 5 luglio 2002, e il fatto che debba essere "funzionalmente autonoma", ed elimina gli ampi ambiti di esternalizzazione, introdotti dal precedente provvedimento. L'esternalizzazione di un ramo d'azienda, sebbene individuabile direttamente dai contraenti, ne risulta impugnabile se non rispetta i requisiti di autonomia e funzionalità. Il Decreto Lgs. 276/2003 non ripristina, tuttavia, il requisito di preesistenza ("articolazione funzionalmente autonoma...identificata come tale..al momento del suo trasferimento").
La tutela dell'art. 2112 non è estesa esplicitamente alla totalità dei dipendenti dell'impresa alienante, e la legge n. 428 del 1990 comma 5, non più modificata, ammette la sua disapplicazione in parte o a tutti i dipendenti dell'impresa cedente. Il comma 6 opera in modo analogo nei confronti di quanti, rimasti presso l'azienda alienante, sono assunti dall'acquirente in data successiva al trasferimento di azienda. Il Decreto Lgs. n. 18 del 2001 modifica i commi da 1 a 4 di tale legge, mentre gli ultimi due, citati prima, sono tuttora vigenti nel testo originario.
Il requisito di funzionalità impediva di esternalizzare personale di aree funzionali o sedi di lavoro differenti, oppure la situazione anomala di una persona esternalizzata, mentre la collega che svolge la stessa mansione, possa continuare al lavorare per l'azienda acquirente.
Per eliminare delle aree aziendali, si creava un unico "contenitore-ramo d'azienda" nel quale, dalle più varie funzioni aziendali, sono trasferite le persone che si intende cedere all'esterno. La scelta sull'esternalizzazione si è spostata in questo modo da una strategia d'impresa impersonale, che giudica le mansioni, ad un giudizio sulle singole risorse umane, potenzialmente discriminatorio e iniquo.
Secondo l'articolo 2112, la decisione di cessione da parte dell'imprenditore non può essere unilaterale e vige l'obbligo di esame congiunto con le rappresentanze sindacali; in assenza dell'esame congiunto, la legge configura esplicitamente un reato di condotta antisindacale, in capo all'imprenditore.
Il principio non vale solo nel caso dei diritti disciplinati dalla legge o dal contratto, ma anche nel caso in cui il diritto del lavoratore trovi il proprio fondamento nella prassi aziendale, in una volontà del datore di lavoro che si è tradotta in un uso consolidato nel tempo.
L'art. 2558 codice civile regola la continuazione dei contratti di lavoro a carattere non personale e ribadisce che "l'acquirente dell'azienda subentra nei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda stessa (che non abbiano carattere personale)".
Analogo principio è sancito dalla direttiva della CEE n. 187 del 14 febbraio 1977, (modificata dalla direttiva n.50 del 1998, v.[3]), la quale stabilisce che, in caso di cessione di azienda, il trasferimento all'impresa cessionaria del rapporto di lavoro dei dipendenti addetti dell'azienda ceduta ha luogo automaticamente.
La Corte di Giustizia Europea, con la decisione del 24 gennaio 2002, ha però affermato la facoltà dei dipendenti di opporsi al trasferimento presso la cessionaria.
La Corte di Cassazione (Cass. Sez. Lavoro n. 19379 del 28 settembre 2004) ha stabilito che la richiesta del dipendente, a cessione avvenuta, di riprendere servizio presso la cedente, dove lavorava in precedenza, costituisce la rinuncia al trasferimento del rapporto di lavoro all'acquirente, ma non rappresenta una richiesta di cessazione del rapporto di lavoro. Per effetto di tale rinuncia, il lavoratore resta dipendente dell'impresa cedente.
Se il dipendente non è iscritto ai sindacati che sottoscrivono l'accordo (perché membro di un sindacato interno minoritario oppure non iscritto ad alcuna rappresentanza sindacale), non esiste alcun accordo di cessione di ramo d'azienda fra lui e il datore di lavoro, per cui il trasferimento all'impresa acquirente rappresenta una decisione unilaterale dell'imprenditore, che è inefficace.
Tale interpretazione vale anche quando i sindacati firmatari hanno per iscritti (e quindi rappresentano) una larga maggioranza dei dipendenti. L'estensibilità dei contratti ai non iscritti al sindacato non è infatti prevista per i contratti a livello di singola azienda e imprenditore.
Il dipendente ha diritto ad un nuovo contratto di lavoro che preveda lo stesso contratto nazionale di riferimento, livello di inquadramento e relativa mansione, retribuzione lorda annua e modalità di pagamento, tipologia (a termine o contratto a tempo indeterminato).
Se la cessione di ramo d'azienda avviene all'interno dello stesso gruppo, essa è trasparente ai dipendenti che si accorgono di un semplice cambiamento della ragione sociale nel cedolino della busta paga.
Se la cessione avviene fra società non appartenenti allo stesso gruppo, allora viene chiuso il precedente contratto con liquidazione del trattamento di fine rapporto (TFR), e il lavoratore deve firmare un nuovo contratto.
La garanzia di un contratto a tempo indeterminato può essere limitata in vari modi:
-cessione ad una piccola società o cooperativa che fallisce dopo alcuni anni: il licenziamento è molto probabile in caso di fallimento;[5].
-cessione ad una società controllata, creata ad hoc dall'azienda acquirente. Può essere un'impresa a termine, ad esempio una joint venture con la società cedente, legata ad un progetto, in cui nell'Atto Costitutivo è scritto chiaramente che sarà sciolta alla sua naturale scadenza; oppure un'impresa a termine che lavora su commessa, legata ad un appalto con la società cedente, e che assume a tempo indeterminato con la clausola di licenziamento non appena gli appalti terminano.
Con la flessibilità introdotta nella cessione del ramo d'azienda, e nelle tutele per la riassunzione dei lavoratori, viene meno di fatto anche la stabilità di reddito, spesso attribuita al lavoro a tempo indeterminato.
L'art. 2112 impone il mantenimento dei contratti collettivi a tutti i livelli, non la contrattazione individuale. Benefit, superminimo e altre condizioni di maggio favore, scritte nel contratto di assunzione, sono perse durante un trasferimento di azienda.
L'art. 2112 tutela la retribuzione e la mansione, non la stabilità del posto di lavoro. I precedenti vincoli di autonomia, funzionalità, preesistenza al momento della cessione, riducevano le casistiche di esternalizzazione, ma non garantivano ugualmente la stabilità. È comune avere delle piccole società, reparti o funzioni (rispondenti a autonomia, funzionalità e preessitenza) con meno di 15 dipendenti da cedere ad aziende che ugualmente non superano tale soglia. Al lavoratore esternalizzato è garantita la tutela obbligatoria, le 4 mensilità con cui può essere licenziato da un'azienda che ha meno di 15 dipendenti, non la tutela reale.
Le citate Direttive 1977/187/CE e 2001/23/CE, all'art. 4, non applicato nell'ordinamento italiano vigente, prevedono che Gli Stati membri possono prevedere che il primo comma non si applichi a talune categorie delimitate di lavoratori non coperti dalla legislazione o dalla prassi degli Stati membri in materia di tutela contro il licenziamento.
La cessione di ramo d'azienda è illegittima se non sussiste l'autonomia funzionale dell'unità ceduta rispetto al cedente, che devono essere due soggetti economici e giuridici separati. Ad esempio l'esternalizzazione potrebbe essere un modo per applicare retribuzioni minori o licenziare del personale. L'accertamento dei requisiti di imprenditorialità di chi acquisisce il ramo di azienda, in termini di organizzazione dei mezzi e gestione del rischio, è essenziale per stabilire la legittimità della cessione. La simulazione e frode di una cessione d'azienda, tramite l'interposizione di un soggetto terzo non imprenditore, facente riferimento a datore di lavoro originale, potrebbe risultare conveniente perché:
sotto i 15 dipendenti, esiste libertà di licenziamento (si applica la tutela obbligatoria, non la tutela reale), un licenziamento individuale è molto meno costoso di uno collettivo, che prevede, fra l'altro, un'indennità di mobilità;
passando all'azienda ceduta, il lavoratore perde benefit e superminimi individuali, salvo che vi sia un sindacato interno, e un accordo fra questi e il cedente che preveda di mantenere superminimi individuali;
il cedente può attribuire al cessionario quote di debiti e un minimo di proprietà, insufficiente a garantire la copertura degli oneri di un licenziamento collettivo o di un fallimento: i dipendenti, per ottenere le proprie spettanze, l'indennità di mobilità o eventuali risarcimenti potrebbero esercitare diritto di rivalsa e pignoramento limitatamente alla frazione di patrimonio conferita al cessionario, e ai diritti degli altri creditori.
Volontarietà del lavoratore
L'art. 1406 c.c. attribuisce valore decisivo al consenso del contraente ceduto.
In base all'art 2112 c.c. il passaggio alle dipendenze del cessionario è automatico, e non richiede nemmeno una preventiva informazione dei lavoratori.
L'art. 2112 pone questo automatismo insieme ad altre tutele per i lavoratori, quindi non come strumento di flessibilità, quanto come tutela della stabilità occupazionale.
In alcuni ordinamenti europei, è espressamente previsto il diritto di opposizione del lavoratore alla cessione, anche in presenza di accordo con le rappresentanze sindacali.
La Corte di Giustizia Europea ha chiarito che il diritto di opposizione è da intendersi come libertà dei lavoratori di scegliere il proprio datore, come impossibilità di obbligare un dipendente a passare alle dipendenze del cessionario[6].
In alcuni casi, la possibilità di rifiuto del lavoratore è subordinata ad un effettivo peggioramento delle condizioni retributive e/o di lavoro, ovvero è comunque consentita in quanto parte delle sue libertà fondamentali di persona.
La Corte di Giustizia UE ha delegato gli Stati membri a disciplinare le conseguenze giuridiche ed economiche del rifiuto di passare al cessionario. Nell'ordinamento italiano ciò configura giusta causa di licenziamento per il cessionario, e comporta la cessazione del rapporto di lavoro.
Altrove, il lavoratore ha il diritto alla reintegra in altri reparti, in analoga mansione o in mansioni peggiorative nell'azienda cedente. Se è facile per il datore provare l'indisponibilità di posizioni di un certo tipo, l'assunzione di personale con compenteze analoghe o in posizioni con job description paragonabile a quelle del personale oggetto di cessione, costituisce prova a favore di un reintegro dei lavoratori esternalizzati.
Nel caso di possibile reintegra nella cedente, a seguito del rifiuto, diventa più rilevante il confronto fra vecchie e nuove condizioni di lavoro, come condizione restrittiva per l'ammissione al beneficio della reintegra nell'azienda cedente.
Diritto di opposizione e azienda dematerializzata
Il diritto di opposizione deriva dal fatto che la normativa deve tutelare due diritti costituzionali, il fondamentale e prevalente diritto al lavoro e ad un'occupazione stabile, con la libertà di impresa. Ne scende che il diritto di opposizione non sussiste laddove il rapporto di lavoro sia trasparente e insensibile alle variazioni della proprietà imprenditoriale.
Ne sono un esempio le cessioni di filiali da una banca all'altra, che eventualmente comportano una variazione delle procedure informatiche e delle esigenze di formazione del personale, a fronte di un servizio erogato che resta il medesimo. Più in generale, dove la cessione riguarda beni strumentali e fisici oggetto di ammortamento, è più probabile che non vi sia un mutamento del mansionario dei dipendenti ceduti, e quindi del contratto collettivo applicabile, e delle condizioni retributive e di lavoro.
La giurisprudenza non prevedeva un diritto di opposizione perché i casi di cessione erano molto meno frequenti prima degli anni novanta, e l'oggetto delle stesse riguardava aziende a forte intensità di capitale in cui la cessione comportava variazioni molto meno significative delle condizioni di lavoro. La cornice della normativa evolve radicalmente con l'avvento di piccole aziende fondate sulle conoscenze specifiche dei dipendenti, piuttosto che su beni strumentali, e la nuova dimensione del fenomeno di esternalizzazione.
Nullità dell'esternalizzazione e reintegra
La legge italiana sanziona le false esternalizzazioni, finalizzate alla messa in mobilità e al licenziamento dei lavoratori. La dichiarazione di illegittimità comporta la reintegra del lavoratore in capo al precedente datore di lavoro.
La disciplina è la stessa per la somministrazione di lavoro, secondo la 176 del '93 e la consolidata giurisprudenza precedente, che tale decreto va a sostituire.
Dimensioni del fenomeno
Allo stato attuale le pratiche di esternalizzazione si vanno sempre più diffondendo tra le imprese, sia pubbliche che private, e tendono a coprire variegate attività produttive, dalla progettazione alla logistica.
L'outsourcee viene visto come lo "specialista" nelle attività "trascurate" dal committente (outsourcer), poiché fa di queste la propria attività principale.
Questo fenomeno viaggia in parallelo con quello della riorganizzazione della produzione su scala globale, strategia a volte indicata con il termine approvvigionamento globale,o global sourcing.
Di fronte alla crescenti dimensioni del fenomeno cominciano a levarsi le prime voci critiche. In particolare, alcuni avvertono contro i pericoli insiti nel massiccio ricorso alle pratiche di esternalizzazione per lo sviluppo di lungo periodo delle imprese. L'uso indiscriminato di tali pratiche tenderebbe infatti a privare le imprese di alcune attività, che, sebbene ad una valutazione focalizzata sul breve e medio termine possono risultare non core, diventano centrali laddove l'ottica si sposti sulla crescita di lungo periodo. Tale critica si riallaccia ad una più generale di "miopia" dei mercati, accusati di privilegiare sistematicamente le imprese che adottano strategie orientate all'ottenimento di profitti a breve termine, senza considerarne adeguatamente le conseguenze nel lungo.






La Medicina Ortomolecolare

La medicina ortomolecolare si basa essenzialmente sul corretto uso della nutrizione e di aminoacidi, vitamine e minerali e quanto altro possa contribuire a migliorare la salute e la qualità della vita degli esseri umani e su metodi igienico sanitari che partono dal presupposto che molti disturbi e malattie derivano da sostanze chimiche che possono essere evitate, o da situazioni che possono essere trattate, a volte curate, riequilibrando in maniera ottimale le l'assetto biochimico individuale, unico ed irripetibile per qualsiasi persona. Questo riequilibrio può essere perseguito utilizzando con consapevolezza delle sostanze chimiche naturali, quali le vitamine, dei minerali dietetici, degli enzimi, degli antiossidanti, degli aminoacidi, degli acidi grassi essenziali, dei pro-ormoni, dei probiotici, delle fibre dietetiche e degli acidi grassi a catena corta intestinali. Molte delle sostanze usate nella Medicina Ortomolecolare sono sostanze nutrienti essenziali. La Medicina Ortomolecolare in Italia è stata introdotta dal Prof. Adolfo Panfili, presidente dell'Associazione Internazionale di Medicina Ortomolecolare (A.I.M.O.) su incarico del premio Nobel professor Linus Pauling. Tale associazione rappresenta l'unica struttura riconosciuta da Pauling a svolgere informazione, diffusione e formazione di questa branca della medicina, oggi diffusa ed esercitata da molti medici in tutto il mondo. I trattamenti ortomolecolari inoltre sono utilizzati anche nei campi della medicina complementare ed alternativa, ma è importante precisare che la Medicina Ortomolecolare non va considerata una medicina alternativa, in quanto la sua finalità è quella d’integrare i differenti approcci specialistici in un contesto multidisciplinare. Per esempio nell’ambito della prevenzione dell’insorgenza della Spina Bifida (un difetto del tubo neurale) è fondamentale l’assunzione nel corso del primo mese di gestazione della madre l’assunzione dell’acido folico per prevenire l’insorgenza di questo difetto nel feto. Ora assumere una vitamina od un aminoacido in questo contesto non rappresenta un’alternativa, quanto piuttosto un’integrazione oramai consolidata dall’evidenza scientifica internazionale.

In sostanza è questo l’approccio integrato del Prof Adolfo Panfili, che si pone con saggia ed obiettiva serenità a valutare ed utilizzare con filosofia integrativa tutte quelle modalità terapeutiche che possono risultare utili e risolutive per la salute del paziente. I farmaci servono ad affrontare le situazioni d’urgenza e la loro gestione, talora inevitabile e salvavita, non può essere banalizzata o liquidata con atteggiamenti terapeutici estremisti ed oltranzisti, che certo non giovano al paziente ed alla Medicina in generale . Ciò nondimeno la prescrizione di farmaci ad oltranza deve essere attentamente valutata specialmente nei soggetti giovani e/o debilitati, nelle gestanti, nelle puerpere, ecc.

Allorchè possibile secondo l’approccio ortomolecolare del prof Panfili è opportuno sostituire il farmaco con vitamine, aminoacidi, minerali e perché no attingendo con consapevolezza dal repertorio omeopatico, fitoterapico, coadiuvandosi con agopuntura, chiropratica, osteopatia. Utilizzare pertanto quelle strategie volte a migliorare lo stato generale e qualora necessario la tolleranza al farmaco stesso, qualora irrinunciabile. Per intenderci meglio prosegue lo scienziato:”…se un bambino è affetto da polmonite ed è febbricitante con una temperatura corporea di 40 °C , pur essendo diplomato da decenni in omeopatia ed omotossicologia non mi arrischierò certo a prescrivere soltanto Bryonia o Pulmonaria, ma piuttosto prescriverò tempestivamente un buon antibiotico ed a piene dosi, coadiuvato da un antipiretico. Certo l’omeopatia potrà coadiuvare la terapia allopatica aiutando il piccolo paziente a smaltire tossine e scorie che il farmaco inevitabilmente produce all’interno dell’organismo del giovane ospite, al fine di garantirne una più rapida ripresa e possibilmente riducendo l’insorgenza di possibile effetti collaterali…”

Medici che possano padroneggiare a 360 ° l’approccio con il malato non ce ne sono molti in giro si potrebbe giustamente obiettare, ma in fin dei conti non occorre certo un drappello di Einstein o premi Nobel, per comprendere che in qualsiasi guarigione un ruolo determinante gioca l’approccio interdisciplinare che si basa sul confronto umano, dialogico e scientifico tra i professionisti della salute . Troppo spesso si dimentica, nell’era della comunicazione, quanto lo scambio di opinioni sia non solo raccomandabile, ma indispensabile per il buon esito di qualsiasi terapia.
Certo una preparazione eclettica nei vari settori è auspicabile e la vita del prof Adolfo Panfili né rappresenta una testimonianza eloquente. Prima di essere uno scienziato quest’uomo è stato atleta poliedrico di valore nazionale in molteplici specialità sportive (vedi curriculum vitae) per trasporre poi tale approccio nei vari settori medici nei quali il professore si è affinato e perfezionato nel corso di circa tenta anni di professione, conferenze, seminari, lezioni universitarie, tenute in tutto il mondo. Il dott. Panfili si è specializzato in Ortopedia presso il Policlinico Agostino Gemelli ed ha svolto il suo tirocinio medico pratico presso l’ Università del Sacro Cuore in Roma in qualità di aiuto del prof Carlo Ambrogio Logrsocino, Direttore di Dipartimento di Scienze Ortopediche e Traumatologiche (Dip). Il suo chilometrico curriculum vitae menziona tra le centinaia di pubblicazioni, congressi, convegni, interviste, presenze televisive, inoltre un brillante professorato svolto presso l’Università degli Studi di Siena nell’ambito dell’insegnamento dell’Anatomia ed Istologia umana che gli ha consentito di approfondire ulteriormente le sue già ben radicate conoscenze ortopediche e chiropratiche approfondite attraverso lo studio ed il diploma quadriennale in Omeopatia, Omotossicologia ed Agopuntura, conseguito in Germania con il massimo del profitto negli anni 90, allorché in tali settori in Italia gli esperti si potevano contare sulle dita di una sola mano. Dopo aver frequentato i corsi dell’Educational Commission for Foreign Medical Graduates (ECFMG®) per l’acquisizione della possibilità di praticare la professione e la ricerca negli USA il professor Panfili, ha affinato la sua esperienza di traumatologo sportivo presso la prestigiosa squadra di Football Americano dei Los Angeles Rans, a Los Angeles, laddove in qualità di Scientific Advicer e Visiting Professor ha trascorso complessivamente circa tre anni della sua vita, entrando in contatto con i nomi più prestigiosi dell’ambito scientifico, sportivo e dello spettacolo del continente, tra i quali il pluripremio Nobel Professor Linis Pauling è quello che in lui ha lasciato la traccia più profonda ed ispirativa.

Ha collaborato come Ricercatore e Visiting Professor anche con il prof Donald Tyson a Santa Monica (LA) California per la diagnosi e la terapia delle patologie del metabolismo aminoacidico, svolgendo migliaia di tests diagnostici sul metabolismo amianoacidico in atleti olimpici e personaggi di risalto come Arnold Schwarzenegger, Silvester Stallone, ecc. tanto per citarne qualcuno.
E’ stato Consulente Scientifico della Gold’s Gym Enterprise il più grande network di fitness e benessere sul globo, che vanta più di 1000 centri sparsi per il mondo; ha disegnato le prime formule dei loro integratori diffuse in tutto il mondo.

Le suggestioni americane però non hanno distolto il prof Panfili dalle sue origini e dalle sue radici che lo hanno riportato in Italia dove ha recato con sé non solo le sue esperienze scientifiche ed umane, ma un background unico nel settore della medicina a tutto tondo e la qualificante richiesta del professor Pauling di fondare in Italia una eminente sede della Medicina Ortomolecolare. Promessa mantenuta al punto tale che il modello di Medicina Ortomolecolare Italiana del ,prof Panfili è divenuto un’ispirazione ed un riferimento unico nel panorama europeo e mondiale da molti imitato. L’AIMO (Associazione Internazionale di Medicina Ortomolecolare) è l’organismo europeo più quotato per le ricerche eseguite e per il fatto di aver per primo perseguito l’obiettivo di essere introdotto con successo nell’ambito universitario.

Rientrato definitivamente in Italia all’inizio degli anni 90 il professor Panfili ha diretto il primo Centro di Fisiopatologia dell’amminoacido europeo mettendo a disposizione dei suoi connazionali dati e conoscenze accumulate nel corso delle sue peregrinazioni scientifiche.

Come il collega Catchart anch’egli ortopedico di grido e fama internazionali il prof Panfili ha mantenuto nel suo approccio ortomolecolare un assetto universalistico ed umanistico tale da consentirgli di spaziare nei campi dello scibile, della ricerca pionieristica.

Basta dare un’occhiata alle pubblicazioni del,prof Panfili per rendersi conto che ci si trova davanti ad un vero esperto della colonna vertebrale a tutto tondo che la colonna la conosce molto bene da tutte le angolazioni possibili ed immaginabili.

“Affamato di conoscenze e curioso cronico…” come lo definiva il compianto professor Linus Pauling il prof Panfili ha approfondito il suo bagaglio culturale attraverso innumerevoli trainings super specialistici svolti in qualità di aiuto con i più grandi chirurghi della colonna, a cominciare dal prof Carlo Ambrogio Logrsocino, Direttore di Dipartimento di Scienze Ortopediche e Traumatologiche (Dip) del Policlinico Gemelli – Università del Sacro Cuore di Roma, al prof Carlo Carmine Cerciello Primario degli Ospedali Riuniti di Roma - Dipartimento di Chirurgia vertebrale - San Camillo – Roma, del pioniere della chirurgia vertebrale del secolo scorso prof. Jhon Howard Moe, del prof Giulio Maira, Direttore dell'Istituto di Neurochirurgia del Policlinico Universitario "Agostino Gemelli" in Roma, e molti altri.

Il prof Panfili tratta vertebre, postura e nutrizione in stretta sinergia sin dall’inizio della sua trentennale attività professionale, sia dal punto vista chirurgico che manipolativo essendo tra l’altro il primo ortopedico in Europa a Diplomarsi in Best Chiropratica con il prof Ted Morter, uno dei migliori chiropratici al mondo, del quale è stato il miglior allievo europeo.

Da segnalare il campo della Psichiatria Ortomolecolare nel quale ci si occupa dell'uso della medicina ortomolecolare a sostegno ed integrazione dei problemi psichiatrici con ottimi risultati specialmente nel campo dell'Autismo e delle patologie correlate, dalla Depressione alla Schizofrenia. Il campo ortomolecolare è basato su ricerca in biochimica, nutrizione, medicina, omeopatia, fitoterapia, chiropratica, osteopatia, posturologia e prodotti farmaceutici uniti con l'esperienza clinica a sostegno di medici e scienziati. Molti studi nutrizionali tradizionali, sia recenti che storici, forniscono il supporto d'investigazione e clinico per i trattamenti ortomolecolari.

Il prof Panfili sostiene l'importante dato che le terapie ortomolecolari sono un prezioso ed utile supporto per le terapie farmacologiche croniche (per esempio: cure a base di cortisone, chemioterapici, ecc., ... ) riducendone gli effetti secondari o i danni a breve, medio e lungo termine. Le terapie ortomolecolari si basano anche sull'uso di somministrazioni parenterali endovenose del tutto prive di rischi, poiché utilizzano soltanto le molecole che sono normalmente presenti nell'organismo attraverso una dieta sana e la regolarizzazione del metabolismo.

Nell’oncologia un adeguato stato nutrizionale è indispensabile nel malato sia per una migliore risposta alla terapia antitumorale sia per fronteggiare le esigenze nutrizionali richieste dallo stress della malattia stessa oltre che del farmaco. Le cause della malnutrizione in oncologia sono molteplici; schematicamente si possono suddividere cause collegate alla neoplasia e cause relative al trattamento antineoplastico. Il tumore è causa di malnutrizione in quanto: può indurre ipermetabolismo,stimolare fattori circolanti che provocano anoressia e perdita di peso; può provocare un blocco meccanico del transito intestinale come nelle neoplasie intestinali. Inoltre la terapia antitumorale è causa di malnutrizione poiché può essere associata a nausea e vomito, stomatite ed esofagite, diarrea, alterazioni del gusto o alterazioni dei normali ritmi dei pasti e del sonno.La malnutrizione in corso di terapia è più spesso associata ai vari trattamenti antineoplastici,nonostante negli ultimi anni le terapie di supporto in oncologia grazie all’approccio ortomolecolare siano diventate sempre più efficaci. Un quarto dei pazienti in trattamento chemioterapico risulta essere sottopeso. Si può ipotizzare che anche il cambiamento dei normali ritmi di vita quotidiana,l’aspetto psicologico negativo, il cambiamento del gusto, le alterazioni del metabolismo indotto dalla chemioterapia possano incidere sfavorevolmente sullo stato nutrizionale dei pazienti oncologici.

Secondo il Prof Panfili si evidenzia quindi la necessità di ulteriori studi sullo stato nutrizionale dei pazienti oncologici.

Informazioni più approfondite sullo stato nutrizionale dei pazienti in corso di trattamento potrebbero essere utili per intervenire sulla dieta e su eventuali problemi psicologici connessi con la terapia, al fine di migliorare il trattamento terapeutico e di incidere favorevolmente sul processo di recupero e di sopravvivenza. Nello stesso tempo un’accurata indagine sullo stato nutrizionale del pz fuori terapia rimane essenziale per poter intervenire, al contrario, sulle cause di un eventuale eccesso ponderale.

Ottimi risultati si perseguono con l'utilizzo della Medicina Ortomolecolare specialmente nel settore antiage.
prof. Adolfo Panfili 





Sindrome di Pitt-Hopkins
La sindrome di Pitt-Hopkins (PHS) è caratterizzata dall'associazione tra ritardo mentale, dismorfismi facciali caratteristici e il respiro anomalo e irregolare. Sono stati descritti circa 50 casi. La malattia interessa i maschi e le femmine in eguale misura. I segni facciali comprendono la macrosomia, con denti distanziati, il palato largo e poco profondo, le labbra spesse, gli occhi infossati, il naso con narici svasate e le orecchie con elice spesso. I disturbi psicomotori sono precoci e gravi e comprendono l'ipotonia, l'instabilità della deambulazione, che viene acquisita tardivamente, e l'assenza del linguaggio. Viene mantenuta la prensione volontaria e non sono presenti malformazioni correlate. Sono frequenti la costipazione, il reflusso gastroesofageo, la microcefalia, il ritardo dello sviluppo postnatale e le crisi epilettiche tonico-cloniche. In casi isolati, sono state descritte aree cutanee ipopigmentate, grave miopia, l'ipoplasia del pene e il criptorchidismo. Nella prima infanzia o durante l'adolescenza, limitatamente alla fase di veglia, possono essere presenti disturbi respiratori, che consistono in episodi d'iperventilazione, seguiti a volte da apnea e cianosi. La sindrome è dovuta alle mutazioni eterozigoti de novo nel gene TCF4 (18p21), che codifica per un fattore di trascrizione b-HLH ubiquitario. La trasmissione è autosomica dominante. È stato descritto un caso di mosaicismo somatico parentale. La diagnosi si basa sull'esame clinico, l'elettroencefalogramma e l'imaging cerebrale mediante risonanza magnetica, che mostra una riduzione dell'ippocampo, una dedifferenziazione dei lobi temporali e, a volte, un'ipoplasia del corpo calloso e una dilatazione ventricolare. Le principali diagnosi differenziali si pongono con la sindrome di Angelman, di Rett e di Mowat-Wilson (si vedano questi termini). Nel caso di nuove gravidanze, si deve discutere con i genitori di un caso indice la possibilità di effettuare l'amniocentesi, per ricercare la mutazione. La presa in carico richiede un approccio multidisciplinare. Il decorso della malattia non è progressivo.
da: Orphanet


Mia figlia, la secondogenita, è nata nel 1996. E’ la secondogenita e non ho avuto alcun problema durante la gravidanza o il parto - racconta mamma Angela su Rareconnect.org – fino a sei mesi di  vita sembrava normale…. mangiava e dormiva, come tutti i neonati. Quando ci siamo accorti che non riusciva a gattonare ed aveva i pugni chiusi delle mani con dei movimenti rigidi abbiamo iniziato la nostra storia tra visite mediche e ospedali.”
“Dopo una serie di esami – prosegue Angela -  abbiamo avuto la rassicurazione che durante il parto non c'era stato alcun problema e così abbiamo iniziato a fare una serie di indagini genetiche tra cui la sindrome di Angelman, diRett e altre ancora ma sono tutte risultate nella norma”.
Dopo diversi tentativi, e un bel po’di tempo, le problematiche che vive la piccola hanno finalmente un nome: Malattia di Pitt-Hopkins. Questa malattia, che interessa sia i maschi che le femmine in eguale misura, è caratterizzata dall'associazione tra ritardo mentale, dismorfismi facciali caratteristici e il respiro anomalo e irregolare. I segni facciali comprendono la macrosomia, con denti distanziati, il palato largo e poco profondo, le labbra spesse, gli occhi infossati, il naso con narici svasate e le orecchie con elice spesso. I disturbi psicomotori sono precoci e gravi e comprendono l'ipotonia, l'instabilità della deambulazione, che viene acquisita tardivamente, e l'assenza del linguaggio.
“Mia figlia ha iniziato a seguire terapie di psicomotricità dall'età di 12 mesi. Ha cominciato a camminare in maniera autonoma all'età di 5 anni ma ha dovuto subire due interventi ai piedi per valgismo; ha una lieve miopia ma non porta gli occhiali perché la sua passione è tirarli giù agli altri. Ora frequenta la terza media ed è una ragazzina sana e felice. Le piace vedere i cartoni animati in TV, ascoltare la musica e giocare, in modo del tutto autonomo con i suoi i pupazzi. Le manca solo il linguaggio, - spiega la mamma- che è del tutto assente, ma sa farsi capire con i gesti per le cose che vuole tipo i giocattoli, bere la sua bibita preferita o mangiare.”


Nasce l'associazione italiana per la Sindrome di Pitt-Hopkins (Pths)
Scritto da Tatta Bis 
La sindrome di Pitt-Hopkins è una malattia molto rara (ci sono meno di 30 casi in Italia e circa 300 nel mondo) e molto grave.
Arriva ora un aiuto e un sostegno ai bambini (e ai loro genitori)  dal Policlinico Gemelli di Roma dove il 20 settembre sarà presentata la neo-costituita “Associazione Italiana Sindrome di Pitt-Hopkins – Insieme di più” costituita dalle famiglie di bimbi a cui è stata diagnosticata la sindrome.
L’ Associazione Italiana Sindrome di Pitt Hopkins- insieme, ha lo scopo di aiutare i genitori che hanno bisogno di confrontarsi con chi sta vivendo la stessa situazione, alla ricerca scientifica per provare a migliorare la qualità di questi bimbi.
La sindrome di Pitt-Hopkins (PTHS) è una condizione geneticamente determinata che rientra nel gruppo delle malattie rare, in particolare nell’ambito delle sindromi con disabilità intellettiva e anomalie fisiche minori. 
Questa malattia, clinicamente, è caratterizzata da ritardo cognitivo grave con importante compromissione del linguaggio, ritardo delle tappe motorie, deficit neurologici aggiuntivi, quali crisi di iperventilazione o crisi di apnea, difficoltà a coordinare i movimenti (atassia), difetti oculari che includono strabismo, miopia e astigmatismo, convulsioni. 
Sono pochissimi i casi diagnosticati in Italia e nel mondo, proprio per questo c’è bisogno di sensibilizzazione e di informazione.
Gianluca Vizza, presidente dell’Associazione, spiega ch vorrebbero arrivare a tutte le famiglie in cerca di una diagnosi, a tutte le figure professionali che ruotano intorno ai bambini (medici, pediatri, maestre d'asilo, insegnanti di sostegno, fisioterapisti...) affinché conoscano i sintomi e le caratteristiche della sindrome di PH, afferma , e si possa arrivare ad una diagnosi precoce, per fare Insieme di più. 
La scelta del Gemelli, per la prima uscita pubblica della neonata Associazione, nasce da una richiesta specifica delle famiglie che hanno una persona affetta da questa malattia, a riconoscimento del ruolo svolto dal Policlinico, in particolare dall'Istituto di Genetica Medica, a diffondere la conoscenza di questa condizione e a rendersi referente per diagnosi e trattamenti. 
Il Policlinico Gemelli è considerato il Centro nazionale di riferimento per questa patologia e per primo ne ha introdotto la conoscenza presso gli stessi genetisti.





Aplasia che cosa significa?
Aplasia Assenza congenita di un organo o di sue parti. Può verificarsi in organismi peraltro sani, oppure costituire un’anomalia, più o meno grave e talora incompatibile con la vita (acardia, acefalia, agastria ecc.). Nello sviluppo, l’organo può rimanere più piccolo del normale (a. cardiaca, in cui la piccolezza congenita del cuore è accompagnata da piccolezza dei grossi vasi), o può fermarsi allo stato rudimentale o presentare incompletezze diverse (spina bifida ecc.). Le cause dell’a. sono endogene, inerenti alla cellula uovo o allo spermatozoo, oppure esogene, rappresentate da influenze traumatiche, difetti degli annessi fetali, malformazioni o processi patologici dell’utero o annessi, deficienze ormonali o malattie infettive materne ecc. 
A. midollare: condizione morbosa in cui vi è una marcata riduzione fino all’assenza del tessuto emopoietico midollare. Vi sono forme idiopatiche o secondarie all’esposizione di fattori tossici (industriali) o a farmaci (dose dipendente o non dipendente) o a radiazioni ionizzanti. Tra le altre cause si ricordano le infezioni virali (per es. virus dell’epatite C). Tali agenti patogeni possono provocare una marcata riduzione del compartimento delle cellule staminali o un’alterazione delle strutture cellulari che formano il microambiente. I sintomi sono variabili con quadri acuti (severe infezioni o severe manifestazioni emorragiche) o subacuti (astenia ingravescente e/o piccole infezioni recidivanti). La prognosi è variabile: si definisce severa l’a. in cui i granulociti sono inferiori a 500/mm3, le piastrine sono inferiori a 20.000/mm3 o vi è una cellularità midollare inferiore al 30%. La terapia si avvale di sostanze stimolanti come gli androgeni o i fattori di crescita. I trattamenti immunosoppressivi (cortisonici, siero antilinfocitario, ciclosporina) agiscono contro il sistema immunitario attivato dell’ospite e spesso permettono di ottenere buone risposte ematologiche con ripresa dell’emopoiesi. Il trapianto di midollo allogenico viene preso in considerazione in presenza di un donatore compatibile, con un’età inferiore ai 50 anni.




Economia: Che cosa è l'Euribor
Euribor è l'acronimo della dicitura inglese Euro Interbank Offered Rate. L'Euribor rappresenta il tasso medio d'interesse con cui circa 25/40 istituti bancari europei (le cosiddette "banche di riferimento") effettuano le operazioni interbancarie di scambio di denaro nell'area Euro. Ai fini della determinazione dei tassi Euribor non vengono compresi i valori ricompresi entro la fascia minima e massima del 15% degli indici emessi. Tutti i giorni feriali, alle ore 11.00 CET, i tassi di interesse Euribor vengono fissati e comunicati a tutte le parti interessate e agli addetti stampa.
Quando si parla di Euribor, si sente spesso dire "il tasso Euribor", come se esistesse soltanto un unico valore Euribor di riferimento. Ciò non corrisponde tuttavia al vero: esistono infatti ben 8 tassi di interesse Euribor, ognuno dotato di una durata diversa (in precedenza ci sono stati 15). Per una panoramica dei tassi, consultare la sezione relativa ai tassi degli indici Euribor aggiornati
Quando è nato l'Euribor?
Il tasso Euribor esiste sin dal 1999, l'anno in cui l'Euro è stato introdotto come moneta sui mercati finanziari. Anche prima dell'avvento dell'Euribor veniva quotidianamente pubblicato un indice di riferimento (in Italia con il nome di "Ribor"). Ciascun paese aveva inoltre un proprio tasso di riferimento nazionale, come ad esempio il "Pibor" in Francia, il "Fibor" in Germania o lo "Aibor" nei Paesi Bassi. 
Quali sono i fattori che concorrono alla fissazione degli indici Euribor?
I valori dei tassi d'interesse Euribor vengono ovviamente determinati in primo luogo dai meccanismi di domanda e di offerta. Si tratta infatti di un tasso di mercato che viene fissato sulla base delle quotazioni provenienti da un gruppo formato da diversi istituti bancari. Vi è tuttavia una serie di fattori esterni in grado di influire sensibilmente sui valori dei tassi di interesse Euribor: basti pensare, per esempio, a parametri economici quali la crescita dell'economia o l'entità dei tassi d'inflazione. 
Per quali motivi è importante l'indice Euribor?
L'indice Euribor funge da parametro di riferimento per i tassi da applicare a vari prodotti (tra cui anche gli strumenti derivati) quali i future, gli swap e i forward rate agreement. L'indice Euribor viene inoltre applicato spesso come tasso di riferimento per i mutui ipotecari e i depositi di risparmio. Sul mercato vengono persino proposti prestiti ipotecari il cui tasso d'interesse è composto da un parametro Euribor e da un valore addizionale fisso. 
Quali sono gli istituti bancari europei che formano il gruppo delle banche di riferimento?
Il pool delle banche di riferimento per la fissazione degli indici Euribor è composto unicamente da istituti dotati di un rating di prima classe. La selezione delle banche a cui viene richiesta l'emissione delle proprie quotazioni per la determinazione degli indici Euribor è demandata a un comitato di direzione istituito dalla Federazione Bancaria Europea (FBE). Per un elenco completo degli istituti bancari selezionati, fare clic qui 
Euribor i LIBOR
Euribor i LIBOR sono tassi comparabili. L’Euribor è il tasso di interesse medio al quale una selezione di banche si concede reciprocamente prestiti a breve termine in euro. Il LIBOR è il tasso di interesse interbancaio medio al quale una selezione di banche si concede reciprocamente prestiti nel mercato monetario di Londra. Come Euribor il LIBOR esiste per diversi periodi. La differenza è che LIBOR è calcolato in diverse valute. Per i tassi di interesse LIBOR attuali, fare clic in questo punto. Per approfondite informazioni di sfondo sul LIBOR, fare clic in questo punto.



Che cos’è il "gravicembalo col pian e forte"?
Notizie dal web: Il pianoforte fu inventato a Firenze intorno al 1700 dal padovano Bartolomeo Cristofori, al servizio del principe Ferdinando II de’ Medici, dando una svolta fondamentale nella storia della musica.
Pier Carlo Lava
Gli strumenti a tastiera antecedenti l'invenzione del pianoforte, ossia quelli appartenenti alla famiglia del clavicembalo, non permettevano di suonare "piano" o "forte": il suono da essi prodotto, infatti, ha sempre la medesima intensità indipendentemente da come viene premuto il tasto. Questo si spiega col fatto che tali strumenti producono il suono pizzicando le corde con dispositivi detti salterelli.
Lo strumento fu chiamato dal suo costruttore "gravicembalo col pian e forte", per sottolineare la sua caratteristica principale, quella di rendere possibile all'esecutore la gradazione dell'intensità del suono.
Il Cristofori (un abile costruttore di strumenti a corda) perfezionò poi la sua invenzione introducendo delle innovazioni, tra cui la possibilità di spostare la tastiera. Ma intanto il pianoforte faceva la sua apparizione anche all’estero: quello del francese Marius risale al 1716, quello del tedesco Schroeter al 1721.
I primi pianoforti furono tutti a coda, cioè a struttura orizzontale; mentre il pianoforte verticale comparve per la prima volta nel 1739, anch’esso per merito di un italiano, il prete toscano Domenico Del Mela.
La musica non sarebbe l’arte universale che è senza il pianoforte. 



Peronospera della vite, che cos’è  e come si combatte?
Un estate quella del 2014 appena conclusa, che non è praticamene esistita a causa delle frequenti precipitazioni, con alti tassi di umidità e comunque un clima con temperature alte, che oltre a danneggiare tutte le attività turistiche con forti perdite commerciali sia nelle località di mare che in montagna, ha favorito l’insorgenza e lo sviluppo della Peronospera, una delle malattie più gravi e diffuse che colpisce la vite. 
Pier Carlo Lava
Da quanto si apprende dal web: http://www.pithecusa.com, in caso di forti attacchi, può essere compromesso tutto il raccolto. E’ causata da un fungo microscopico che colpisce le foglie, i germogli e i grappoli. Gli effetti degli attacchi sono facilmente riconoscibili perché inizialmente si manifestano con la formazione di macchie circolari cosiddette “a macchia d’olio” che possono essere osservate sulla parte superiore della foglia, soprattutto, se la si pone in controluce. 
In corrispondenza di queste macchie, successivamente, ma nelle parte inferiore della foglia e se il tempo decorre umido, si può osservare la fuoriuscita di una muffa bianca. La zona colpita dissecca e addirittura, se l’attacco è massiccio, può aversi la caduta della foglia. La stessa cosa capita, con effetti ovviamente più gravi, se l’attacco del parassita avviene sul grappolino anche prima della fioritura. In questo caso esso si presenta allessato e contorto come se fosse stato immesso in una bacinella piena di acqua calda. Tra l’infezione e i danni irreversibili alle foglie o ai grappolini, passano alcuni giorni che variano a seconda dell’umidità e della temperatura. Pertanto, è evidente che questi due fattori (alta umidità e temperatura) hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo della malattia. 
Intanto, per aversi la prima infezione è necessario che sia caduta una pioggia di 10 millimetri (significa 10 litri di acqua per metro quadrato di terreno) la temperatura minima raggiunga i 10 gradi e i germogli hanno una lunghezza di 10 centimetri. Questa regola detta “dei tre dieci” se applicata correttamente, permette di evitare i primi trattamenti antiperonosporici. 
Inoltre, con questo metodo, si individua la prima infezione peronosporica. Per le successive, perché si susseguono, è sufficiente che la vegetazione della vite resti bagnata per almeno 2 ore e, pertanto, anche un’intensa rugiada mattutina può provocare l’infezione. 
Tra l’infezione e la fuoriuscita della muffa bianca passano alcuni giorni (periodo d’incubazione). In questo periodo bisogna necessariamente intervenire con un trattamento chimico.
I prodotti chimici (gli antiperonosporici) che si utilizzano hanno lo scopo di bloccare o prevenire lo sviluppo del fungo. 
Il mercato fornisce innumerevoli prodotti per combattere la peronospora della vite ognuno dei quali ha un proprio meccanismo d’azione. Per le finalità che ci siamo imposti, vi consigliamo di usare un prodotto a base di Rame avvertendo che i trattamenti dovranno essere tempestivi in quanto il rame svolge la sua azione in modo preventivo. La scelta di usare questi prodotti a base di rame scaturisce dal fatto che essi sono gli unici ammessi dalla normativa internazionale vigente per l’agricoltura biologica.


La filossera della vite, che cos’è  e come si combatte?
Un estate quella del 2014 appena conclusa, che non è praticamene esistita a causa delle frequenti precipitazioni, con alti tassi di umidità e comunque un clima con temperature alte, che oltre a danneggiare tutte le attività turistiche con forti perdite commerciali sia nelle località di mare che in montagna, ha favorito l’insorgenza e lo sviluppo della Filossera, una delle malattie più gravi e diffuse che colpisce la vite.
Pier Carlo Lava
Da quanto si apprende dal web: www.vinofaidate.com/cercavini La malattia è provocata da un afide (Phylloxera vastatrix) che sui vitigni europei attacca solo le radici fino a portare la pianta alla morte, Sui vitigni americani il suo ciclo presenta una forma che vive sulle radici e una forma che attacca la vegetazione. La malattia si manifesta quando dalle uova, che svernano nelle crepe della corteccia, escono le femmine che pungono la pagina superiore delle foglie e originano, nella pagina inferiore, delle “galle”, dove depongono le uova. Continuando il ciclo, l’insetto migra verso le radici dove però i danni sono limitati alla formazione di nodosità e tuberosità.
I danni sulla vite europea sono gravissimi, in quanto si manifesta il deperimento della pianta quando ormai l’attaco alle radici è allo stadio finale, e la vite muore.
L’unico mezzo di lotta consiste nell’innestare le viti europee su piede americano, che resiste meglio alla malattia e non presenta degenerazioni sulle radici



“Banner link” e “Back End”, cosa significano?
by Pier Carlo Lava
Il Banner è un inserzione pubblicitaria a pagamento in formati diversi su un sito o un blog sul Web, che pubblicizza il marchio, l’immagine o un prodotto dell’ azienda.
Si dice Banner link, quando il visitatore cliccandoci sopra viene trasferito sul sito internet della stessa. Gli obiettivi primari del Banner link sono quelli di aumentare le visite al sito dell’azienda e la conoscenza della marca (brand knowledge). Inoltre in caso di e-commerce contribuisce ad aumentare le vendite online della stessa. 

I Banner link sono sempre più presenti sui siti dei giornali online, ma non solo e negli investimenti di pubblicità media internet ha raggiunto il 22% contro il 52% della TV, inoltre c’è chi ritiene che fra alcuni anni Internet supererà la TV in raccolta pubblicitaria.
Back End è un insieme di azioni finalizzate a perfezionare le opportunità scaturite a seguito di una Campagna Promozionale.


“Deflazione”: Cosa significa?
by Pier Carlo Lava
Deflazione, una spirale negativa che porta meno ricchezza, più disoccupazione, minori consumi e la recessione del paese. Con il termine deflazione, che è il contrario dell’inflazione,  si definisce un periodo di tempo nel quale i prezzi di vari generi scendono sotto lo zero. In teoria questa è una buona occasione per le famiglie che dovrebbero essere incentivate a fare acquisti, ma in pratica succede l’esatto contrario, infatti le stesse attendono un ulteriore discesa dei prezzi.
Si determina perciò una flessione della domanda al consumo, che si riflette sulla produzione delle aziende, che diminuiscono le vendite, entrano in difficoltà, non investono e sopratutto tendono a licenziare i dipendenti con un ulteriore aumento della disoccupazione.
Stando alle statistiche dell’Istat, in Italia questo trend con tutti i rischi connessi non accadeva da oltre mezzo secolo. Sempre secondo l’istituto di statistica i settori maggiormente colpiti dalla deflazione fra quelli costantemente controllati sono: comunicazioni, alimentari e abitazioni (acqua, elettricità e combustibili).

La perdita del potere di acquisto
by Pier Carlo Lava
La perdita del potere di acquisto delle famiglie italiane è la diminuzione dei beni e servizi che si possono acquistare con lo stesso ammontare di euro in presenza di aumenti dei prezzi nel tempo. Esempio: se i prezzi dei prodotti nel corso degli anni continuano a crescere e gli stipendi e le pensioni non seguono lo stesso andamento, non sarà più possibile acquistare la stessa quantità degli stessi prodotti. Praticamente è quello che è successo nel nostro paese negli ultimi vent’anni.



Quando si parla di Inflazione?
by Pier Carlo Lava
Il termine inflazione si riferisce all’aumento continuo dei prezzi al consumo, a questo si arriva quando gli aumenti dei prezzi sono diffusi nel sistema economico del paese e tendono a continuare nel corso del tempo, mentre si parla di deflazione (come ad esempio nel periodo attuale) quando i prezzi dimostrano una tendenza diffusa e persistente alla diminuzione.


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